venerdì 23 dicembre 2011

Progetti per il futuro

Convincere le persone a me care che utilizzare la metafora della penetrazione del carica-batteria col cellulare scarico che geme non è volgarità.

Le aziende petrolifere ti inculano: fottile, e fatti l'impianto fotovoltaico.

 

 

giovedì 8 dicembre 2011

Il prossimo tuo come te stesso

- Ha qualcosa da dichiarare?

- Tutti credono che l'Italia sia una nazione mediocre dal punto di vista militare. Ci siamo travestiti in maniera permanente di questa immagine di avvinazzato pressapochismo all'interno del quale si perpetuano indisturbate le nostre metalliche contraddizioni.

- Ma cosa sta dicendo?

- L'industria bellica controllata dallo Stato non conosce crisi. Mentre con una mano vi dissanguano spalancando la valvola della miseria del popolo, con l'altra ci si prepara al più esoso shopping guerrafondaio degli ultimi anni. E sapete perchè? Perché se noi non compriamo dagli altri, altri non compreranno da noi. E non possiamo permettercelo.

- Va bene, sir. Adesso vuole gentilmente spiegarci bene come sono andate le cose?

- Lei non può capire, tenente, davvero. Stamattina avevo delle scadenze ma nessuno mi rispondeva al telefono. La gente, mi creda, mi aveva garantito che avrebbe onorato i propri impegni. Ma quando ho cercato conferme, nessuno mi rispondeva. Poi ho preso il treno. Sa, solitamente preferisco sedermi da solo, è meglio. Quando vi è un'intera fila libera preferisco sedermi al lato corridoio per scoraggiare chiunque ad attraversare il mio spazio per sedersi dal lato finestrino. Quando mi sono assicurato che non vi sono più ulteriori minacce mi accomodo accanto al finestrino per guardare i paesaggi.

Mi piace osservare i tetti, e le auto parcheggiate nei pressi delle puttane. Io non ci sono mai andato a puttane, non saprei che cosa dire loro per esordire. Senza una buona introduzione non si potrà mai concludere. Lei ci va a puttane, tenente? Come esordisce? Comincia a trattare sul prezzo?

- Non si perda in chiacchiere, risponda alla mia domanda.

- Sa tenente, io detesto sentirmi guardato. Detesto che mentre io sono qui a parlare con lei, magari a qualche centinaio di chilometri possa esserci qualcuno che si stia ricordando di me e stia soppesando la mia vita sul bilancino della fortuna.

- Senta, non abbiamo tempo da perdere...

- ...Stavo camminando e lui mi stava venendo  incontro. Aveva un paso sicuro, guidato da una chiarezza quasi celestiale. Era magro, con questa enorme massa di capelli ricci neri che ondeggiavano come molle di gomma.

- Che cosa ha fatto.

- Non mi ero accorto di lui fintanto che non ha cominciato a guardarmi. Mentre si riduceva la distanza tra noi, mi dava l'impressione di danzare lievemente nel suo passo. Ho pensato che fosse un idiota qualsiasi, o un drogato travestito da adolescente. Ha cominciato a sorridermi dando per scontato che l'avessi riconosciuto. "Chissà che lavoro fa costui". Ho pensato mentre mi allargavo alla mia sinistra per evitarne di incrociarne l'odore.

- Si tratta di un musicista.

- Ah, un musicista,.

- E poi?

- Mi fissava e sorrideva, e lentamente si portava via tutto. Si impossessava della strada, dell'aria, dei muri gialli, e del peso che sembrava domare. Senza alcun dubbio mi stava venendo incontro. Voleva portarmi via qualcosa, qualcosa che aveva già visto, che conosceva, che probabilmente sosteneva essere stata sua, e che solo per un fortuito caso, adesso, si trovava in mio possesso. Sì, ma che cosa? Fingeva quel sorriso questuante, ma in realtà la sua leggera educazione tradiva la risolutezza del diritto che avrebbe vantato con supponenza quasi divina. E poi ancora mi guardava, mi ordinava quasi di liberarlo di me, e di riconoscere la distanza universale tra noi....

- E?

- ... e allora l'ho afferrato per capelli e ho fatto sì che la sua convinta arroganza scolpita sul quel viso conteso tra il dionisiaco e l'idiota, si esaurisse contro il muro giallo alla sua destra.

domenica 27 novembre 2011

Focolari

Sua madre era decisamente convinta che fosse stato lui a svuotare quella vecchia bottiglia di Johnnie Walker che teneva esposta nella libreria davanti alla trilogia di Samuel Beckett.

Come prima contromisura decise di requisire la bottiglia incriminata, e di utilizzarne il contenuto come ingrediente segreto nella marmellata di prugne, a guisa di conservante.

Successivamente avrebbe tentato di andare a fondo alle ragioni sciagurato vizio che aveva arruolato suo figlio nel plotone dei dementi.

Cominciò a chiedergli insistentemente dove andasse il pomeriggio, e perché aveva ricominciato a mangiare formaggi dopo due anni di astinenza.

Perché non tagliava i capelli, perché avesse smesso di uscire il sabato sera in concomitanza con l'autunno.

Cominciò a segnare sul calendario la ciclicità delle sue emicranie e a tentare una correlazione con le previsioni dell’oroscopo, e le lezioni apprese dai palinsesti pomeridiani dell'emittente pubblica.

La scoperta che la velocità della luce può essere superata, inoltre, riduceva enormente le residue certezze a cui un uomo moderno può devolvere la propria vita. Ormai ci si poteva affidare solo alla pubblicità e all’aumento dello spread.

La sua curiosità si fece insopportabile e trasformava anche una richiesta di condimento nell’insalata in un fosco interrogatorio.

Qualunque atto sospetto ed insolito che apparentemente s’ammantava di essere un portatore insano di infelicità e abbandono, lei, madre, l’avrebbe indagato per salvare suo figlio dal degrado.

Un solo interrogativo restò fuori dal recinto delle sue inchieste: “ma una volta aperta una bottiglia di whisky, il suo contenuto evapora?"

venerdì 28 ottobre 2011

Qualcuno era comunista


Compagno Andrej, abbiamo finito le munizioni. Dobbiamo ripiegare.

Mai.

Ma non ce la faremo.

Resistete. Non vedo altra speranza che il capovolgersi violento del mondo.

lunedì 10 ottobre 2011

To finally be caught


Non dirmi nulla. Lascia che il vetro di questa bottiglia possa filtrare  le tue espressioni, che possa irradiare la malinconia di un ennesimo abbandono.

Nelle lettere pubblicate sui giornali si afferrano i cappi che fanno  risalire alle travi su cui sono annodate le resistenze che si oppongono alla forza centrifuga delle nostre paure.

Cosa non darei per non saper più leggere e per lasciarmi guidare solamente dalle pause che piovono nelle nostre conversazioni, dalle smorfie refrattarie e dai ghigni che scorrono sul tuo viso.

Vorrei sorvolare sui tui dubbi più profondi e lasciarmi precipitare nel vuoto di essi, dimenticando quanto siano rovinose le voragini, quando si parla di otri dell'anima.

Rimbalzare sulla gomma masticata delle infrazioni permanenti all'esperito ciondolare della quotidianità, che arde su questa terra arida.

Ho scoperto un saccheggio tra le pile di documenti catalogati nei casellari dei promemoria futuri. E ho dimenticato la password per ripristinare il gusto della rivolta.
Si marcia ai bordi di accozzaglie di propositi infranti.

Il tetto della memoria è fatto di lamiere d'amianto. I polmoni ne hanno introitato le polveri ad ogni tentativo di scavo che ha fatto nevicare ruggine sui balconi rivolti ad occidente.

Bevi il tuo drink e, almeno stavolta, pensa che io non sia capace di comprendere nulla di quello che vorresti raccontarmi.

Mi hanno insegnato a giustificare verso me stesso le ragioni di un innocuo guizzo di questo pupo preso in leasing coatto.

Questo tribunale motiverà la sua sentenza prima o poi. Io vado a fumare un sigaro nel cortile delle ginestre.

Le pareti di questo istituto sono tinte di schifo, eppure sei qui. Non ti aspettavo, né ho mai sperato di poterti incontrare.
La speranza è spesso il tassello mancante nei piani di rivolta di un uomo.

Ti colgo, come se arrivassi in un momento che è unico e irripetibile, e del quale non esistono né memorie né repliche fatue. Ogni volta mi ripeterai il tuo nome, ed io sorriderò nel ricordarne uno nuovo per battezzare la mia rinascita in un attimo di vita che s'accende e si spegne per incastonare la felicità.
Dormi ancora un po', amore. Noi andiamo.


- Andiamo, Maria, facciamo tardi a scuola. Saluta la mamma.

martedì 27 settembre 2011

Perdiamoci di vista


L'ultima volta che ho sentito un vecchio collega universitario egli era in viaggio verso Pisa, in treno. Cinque anni fa,  o poco meno.



Ricordo bene la circostanza per cui egli nel 2004 votava la mozione Fassino nel penultimo congresso dei Democratici di Sinistra, mentre io sostenni la mozione Mussi-Berlinguer. Di contro, nelle primarie del 2005 per l'indicazione del candidato presidente della regione Puglia, egli votò Vendola, io votai Boccia.


In entrambe le circostanza mi ritrovai, non so quanto orgogliosamente, in miserrima minoranza.


Era un compagno, politicamente parlando, ed aveva una media voto agli esami di poco inferiore alla mia. Lo chiamai un pomeriggio, un paio di giorni dopo la mia laurea, per chiedergli delucidazioni nella compilazione di una domanda per una borsa di studio per i master.


Io il master non lo feci più e intrapresi la carriera da provetto ricercatore.

Negli ultimi tre mesi ho trascorso una frazione non trascurabile del tempo dedicato all'ozio a cercare di ricordarmi il suo nome, poi facebook avrebbe fatto il resto.


Ed il suo nome mi è balenato in mente, un pomeriggio di inizio autunno, mentre mi pongo come una spugna dinanzi ad un trattato di Supply Chain Management.
Facebook lo scova su mio preciso mandato.



E scopro che si è sposato, che è diventato grande e via dicendo... e che il massimo della politica che si evince dalle scarne informazioni carpite da FB è un timido invito a votare "Sì" al referendum sul nucleare.

Mentre io ho continuato a perdere tempo in lungo e in largo a giocare al "Togliatti-fai-da-te", e a farmi dire "quanto-sei-bravo", senza concludere un cazzo.

lunedì 19 settembre 2011

La casa in collina


R. è nato vicino al mare, ma non sa nuotare. Si dimena nervosamente come un mastino abbandonato nell'oceano di una vasca da bagno, con la paura di affogare.



Ha dei vecchi scarponi da montagna che gli regalò uno zio di sua madre che aveva la passione per i funghi, ed ha vissuto diversi anni in una casa circondata da boschi di quercia che ora son più bassi lui.
Lui i funghi li apprezza, e sa riconoscerli solo se messi a contorno di una bistecca al sangue; se fossero posti ai piedi di un tronco non saprebbe come individuarli e sarebbero del tutto inosservati.
Ama la montagna perché, dicono, vi è aria fresca e poco inquinamento luminoso, e la sera è necessario coprirsi bene perché il freddo passa sulla pelle come un rullo. Ma in montagna non c'è mai andato, perché la montagna è troppo lontana.

La collina è tutta suddivisa in parallelogrammi irregolari, tutta tappezzata di ulivi e vigneti che ogni anno restituiscono lo stesso frutto, la stessa polpa, lo stesso odore. Piove poco e d'estate si soffoca al mattino e si rabbrividice dopo il tramonto.

In collina, R. va in giro con gli scarponi ed il costume da bagno. Non sapendo nuotare e non sapendo raccogliere i fungi.
La collina sta al centro e non sta da nessuna parte.

La collina è un limbo con poche storie da raccontare, e tanta vita che scorre senza consapevolezza. La collina è troppo alta per chi dal mare approda alla terra ferma, ed è troppo bassa per gli amanti  della vertigine e dei grandi panorami.
La collina sta lì a cercare di ritagliarsi un ruolo che non è sancito in nessuna sceneggiatura orologica e idrogeografica. La collina è a metà strada, ed ogni cosa non è abbastanza vicina da poterla distinguere chiaramente, né abbastanza lontana per offrire un riparo ed un rifugio nascosto.

La collina ha pochi connotati. La collina non esiste.

mercoledì 14 settembre 2011

Also spracht Alcor - la vita è uno stato mentale


Domani parto, again.

Tra la stasi esogena e la convalescenza che mi ha immobilizzato tutto ciò che esiste tra il mio basso ventre e le mie ginocchia, il mio pensiero corre e ricorre al racconto Infanzia di un capo, di Sartre. Quello del concetto della "immensa attesa", per intenderci. Omosessuali a parte (con tutto il rispetto), esistono parole che si attaccano alla pelle come elettrodi, e sembrano raccontare i picchi e i precipitati attraverso il diagramma che quotidianamente si tende ad arginare.

Uso l'impersonale, o un'anonima prima persona plurale, ma è di me che parlo, visto che il residuale tessuto di esseri terrestre mi è tuttora sconosciuto.

Dovremmo ripartire da alcune costanti: da Nietzsche, dal tonno con la maionese, dai cappelli ottocenteschi, dal nodo windsor alle cravatte, dal tiramisù, dai sudoku e dall'indifferenza imperatrix mundi.
Ricevo la telefonata di un caro amico che non ha del tutto perso la voglia di rantolare nel torbido. Del resto, perché biasimalo, ha solo 24 anni è assolutamente comprensibile che egli sia ancora in grado di invocare una solidarietà generazionale nell'erezione di un fronte battagliero contro questa manica di cialtroni che si proclama classe dirigente.

Mi veniva in mente che il porto vicino casa mia non riesce a sviluppare il suo potenziale di affari perché è poco profondo. Il pescaggio inferiore lo rende poco competitivo perché impedisce alle navi più grandi di poter attraccare.
Si potrebbe scavare. Si potrebbe, no?

Peccato che vi abbiano sversato tanta di quella merda, nel corso degli anni, che smuovere un sassolino dai fondali significherebbe mettere in circolo tossicità allo stato puro.
Ecco cosa accade quando si smuovono consolidati strati di schifo, per riconvertirsi e non crepare.


 








 

giovedì 8 settembre 2011

Eureka!


Ecco: la risposta a tutto.

Ed il nome è una garanzia.

http://www.alcor.org/

Two seconds, XL*


Alcor non trascorreva le vacanze solo con la propria ragazza da poco meno di 29 anni. E la cosa  deve aver avuto un effetto positivo sul suo organismo, perché, nonostante la pressoché invariata determinazione nel non praticare alcun atto finalizzato all'estinzione dell'adipe in eccesso, i suoi alunni l'han ritrovato più in forma e più giovanile (mah!).

Discrezione e buone prassi sulla tenuta della diplomazia familiare, quando vi è una particolare dedizione alla lettura, consiglierebbero di omettere dalla cronaca la pedissequa narrazione della vita di coppia vacanziera, nei suoi aspetti più intimi e appassionanti.

Ergo, escludendo dalla celebrazione di quei venti giorni, tali estasiatici dettagli....

... ... ...

...Racconto completato.






* il titolo del post non allude ai tempi di reazione di Alcor nei riguardi della massima espressione di bellezza in circolazione nel sistema solare, bensì ad un particolare equipaggiamento da campeggio.

martedì 6 settembre 2011

Spread


In questi giorni tutti gli investitoi fuggono come la peste dai listini europei, alla ricerca di rifugi sicuri.



Questa mattina la Banca Centrale Svizzera ha deciso di bloccare il cambio con l'euro, fissando un tetto massimo per limitare l'apprezzamento della valuta elvetica.



Risultato di tutto questo, tutti si rifugiano nell'oro: 1.920 dollari l'oncia e a 1.362 euro l'oncia.



Cala persino il Brent, presumibilmente a causa del crollo dei consumi.



In ogni caso mi torna in mente quella cazzona che mi restituì gli aurei regali da me evasi in suo favore, e le dico: grazie.

domenica 4 settembre 2011

Ad ognuno il suo cattivo gusto


- Ma insomma! Ti sembra giusto?

- Coerente.


- Se non ce lo diceva la tua ragazza di questo "coso" dove scrivi, non avremmo mai letto un messaggio, un biglietto, un qualcosa!

- Che cazzo vuoi, oh?

- Come, "che cazzo vuoi"? Ti sei suicidato!

- Non si chiama "coso", è un blog. E comunque ve l'avevo detto, e con un lessico abbastanza comprensibile per il vostro basso profilo scolastico.

- Ma quando ce l'avresti detto?

- Ma a pranzo, cretino, poco fa.

- Ma quando?

- Mentre mangiavi il polpettone e ti accusavo di non aver mai voluto riporre un centimetro di fiducia nei miei confronti, lasciando che io stesso mi convincessi che non ne valeva la pena.

- Mi hai detto queste cose? Ma io non ricordo!

- Certo che non ricordi, te le ho dette parlando ad esempi, a parabole... avresti dovuto capirtlo, da solo, senza disegnino.

- Potevi essere più chiaro però!

- Ma dove cazzo hai sentito mai di uno che si suicida dopo aver ponderato la cosa in un dibattito luculliano... sei scemo?

La vita interiore


- Ma lei è un giocatore di rugby?

- No, pratico attività più tranquille, come la briscola.

- Fuma?

- Sì, ho un'insana propensione al carsismo polmonare.

- Diamo una controllata alla prostata?

- No! Sono diventato obiettore di coscienza pur di non far visitare la mia prostata! La prego...

- Ma giunti alla sua età un controllo sarebbe opportuno, suvvia, non faccia il bambino, si volti.

- Le ho detto di no! E comunque sono ancora giovane per badare alla mia prostata!

- Lei "giovane"? Ma sta scherzando, vero?

- Perchè?

- Lei crede davvero di essere ancora giovane?

- Ma... è scritto qui, legga, sui miei documenti.

- Quali documenti?

- Ecco, questi... ma.... che cosa è successo alla mia immagine?

- Che cos'ha la sua foto?

- Sembra essersi ingiallita, all'improvviso, e il mio nome è sbiadito, la mia altezza dimezzata, che scherzi sono questi?

- Tenga, si guardi allo specchio.

- Ma, chi è questo vecchio canuto?

- Come chi è? È lei, non si riconosce?

- Ma non  posso essere io! Avevo il viso tondo e i capelli neri quando sono venuto qui.

- Quanto tempo crede che sia trascorso da quel momento?

- Come sarebbe, quanto tempo... Un'ora al massimo...

- Un'ora al massimo, dice? Lei ci sta lasciando lentamente, figliolo. Su, si giri, dobbiamo controllare la prostata, è necessario.

- Ma vuole darmi una spiagazione? Che cosa c'era in quel bicchiere che mi ha offerto?

- Dei drenanti naturali.

- E cosa significa tutto questo? Perché sento le gambe cedenti e un forte mal di schiena?

- Che lei deve svegliarsi, giovanotto. Che lei deve necessariamente svegliarsi  e andarsene da qui.




Le scelte sono gli angoli in cui si depositano le scorie della solitudine in cui è confinato ogni uomo. Ai bordi del pavimento, lungo i muri delle stanze, basta una passata di un panno umido per ristabile una parvenza di chiarezza. Agli angoli, invece, resta sempre qualcosa che si deposita col tempo. Lì, dove i contorni si fanno irregolari, dove è obbligatorio svoltare per non andare a sbattere contro un percorso nottambulo, e dove fa più male se ci si rovina contro.

Dopo aver fatto i gargarismi col suo colluttorio rosso, e avendo avuto cura di riporre il suo deodorante ascellare nel bagaglio, andò incontro a suo padre che lo aspettava battendo la pianta del piede.

Allargò il nodo della cravatta per non lasciare che l'ansia lo strozzasse. Qualche felpa per la sera l'aveva portata con sè. Doveva ancora interpretare gli adattamenti del suo corpo ad un clima diverso a quello a cui era abituato. Ogni tanto si schiariva la voce con un grugnito silenzioso per modulare meglio le sue parole. Aveva capito che plasmando bene le parole avrebbe potuto rendere meno infettivo il suo accento marcatamente distintivo.

Durante il volo provava a intavolare discorsi con se stesso per saggiare i suoi progressi nel tenere  a freno le mani, per controllare meglio gli effetti dell'ansia.
Che avrebbe avuto a disposizione poche altre occasioni lo sapeva bene. Non si è giovani per sempre. E la resa dei conti inesorabilmente è depositata sempre là, all'angolo della stanza.

Avrebbe sciorinato ancora una volta il novero delle sue esperienze. Una ad una, come un susseguirsi di stazioni deraglianti che non avrebbero mai conosciuto un approdo. Avrebbe provato ad offrire alla commissione una rilettura di quegli eventi che fosse meno ufficiale. Avrebbe tracciato il filo conduttore di quella rincorsa alla normalità affrontata con tanto coraggio ma con pochi apprezzabili impronte nel corso evolutivo della specie umana.

Giunto a destinazione lei lo venne a prendere, e lo abbracciò. Per un attimo ebbe il sospetto che vi fosse una larga pozzanghera che separasse la realtà monolitica e immutabile dall'idea che costei in quel momento stava stringendo tra le sue braccia piene di ardore.

Ogni minuto che da allora trascorse assomigliava al campanello del giudice istruttore che freddamente enucleava le ragioni di una speranza malriposta.

(I vincenti li riconosci subito, riconosci i vincenti e i brocchi. Chi avrebbe puntato su di te? Io avrei puntato tutto su di te, Noodles. E avresti perso.)

Lei le offrì una granita all'anice, preparata come solo sua madre sapeva fare. Era diventata consuetudine da un po' di anni. Egli guardava il suo bicchiere di granita nel quale giaceva l'ultimo sorso. Pensò che non aveva sempre bevuto granite. Che per larga parte della sua vita le granite erano fluite in maniera indifferente senza che gli venisse mai venuta voglia di berne un bicchiere. Tanti anni erano trascorsi senza che le granite fossero mai esistite.

Un giorno, invece, s'accorse che faceva caldo e che non aveva fame, e che una granita gli sarebbe bastata per restare in compagnia di persone a cui avrebbe poi voluto bene.

Pensò che questa volta non sarebbe stato necessario avvisare a casa che il viaggio era andato bene.

Per anni gli avevano insegnato ad aspettare, a rinunciare, a restringere il ventaglio delle scelte. Si presentava al mondo dei vivi ricolmo di un amore che recava in dote miriadi di capitoli incompiuti. Storie affogate nel cesso al primo apostrofo erroneamente collocato.
Come quelle vecchie macchine da scrivere che andavano con i nastri di inchiestro nero. Bastava un dito un po' più disconnesso a rendere inaccettabili discorsi interminabili.

Infilò il suo pigiama invernale, e respirò a fondo il calore che da quell'abbraccio ancora s'infondeva. Una lacrima si addensò alla cornice del suo occhio sinistro, come un vetro rotto da cui penetrava la pioggia.
Sentiva il peso di tutta quell'inadeguatezza a cui aveva lasciato ampi metri di vantaggio, e che proseguiva lenta, lentissima, e lo precedeva nella risoluzione dei suoi algoritmi quotidiani.
Anche con il passo di Achille non l'avrebbe mai raggiunta, perchè essa conservava sempre una precedenza assoluta che le proporzioni dello spazio tempo avrebbero reso incolmabile.
Si nasce tartaruga, o si nasce Achille.
Si nasce compiuti, o si nasce appena.

Sul giornale dell'altro ieri vi era la consacrazione dell'incompiutezza come stagno nel quale la forza creatrice del linguaggio si edulcorava di arazzi pregiati nei riguardi di una cenciosa e scontata banalità a tratti quasi ripugnante.
L'irrequietezza è l'impeto ventoso che schiaffeggia l'insenatura al riparo del mare. Una conca aperta da cui la vita avrebbe lanciato affondi che un lago cheto e descrivibile non avrebbe mai appreso nelle sue computabili rive.
Una forma estrema di annegamento che ha come contorno incompleto la colpa, e come sbocco inevitabile la distruzione di ogni cosa.

Sentiva tutto il peso dell'umidità di un cielo in cui la sera non si rintracciano stelle.

A lei dedicò quei pensieri che si rivelarono gli ultimi. Pensieri che non sarebbe stato capace di replicare su carta per non lasciarsene privo. Ché scrivere è un impoverirsi senza ricevuta fiscale.
L'arte, un condono sull'inconcludenza.

E la smise all'improvviso, calpestato tra i binari di una metropolitana.


 

martedì 16 agosto 2011

sabato 6 agosto 2011

L'officina


Io me le ricordo quelle chiavi inglesi, e quei bulloni pieni di grasso.  Mio padre aveva attaccato un pannello di legno compensato alla parete dietro il bancone. I ferri erano tutti appesi ordinatamente a dei chiodi sul pannello.



 



Ne arrivavano di ogni genere, ciascuna con ogni tipo di guasto. Da un irrecuperabile cedimento della testata, alle sospensioni scariche, alle marmitte bucate, sino a graffi e ammaccature superficiali che sembravano immediatamente rimediabili.



Ché a furia di tenerle dentro, a strisciarvisi sotto, ad elevarle sui ponti, esse prendevano il tanfo dell'umido dell'officina, dell'olio; nei casi più disperati, credo prendessero persino l'odore del mio fiato.

Ad alcune di esse ci si affezionava, ricordo quella Fiat Ritmo dell'88, anno di deliranti feste in campagna. Sembrava non volesse guarire pur di restare. Ad un certo punto davano l'impressione di sentirsi a casa, tra quei ferri.


Oh, alcune ci son restate, per incuria dei proprietari, per la gravità dei loro difetti. Altre invece son passate solo per un pomeriggio, un paio di giorni, un saluto e nient'altro.


Rinascevano sotto gli interventi delle mie mani e della mia esperienza, e poi correvano via. Qualche volta tornavano, come no... Mio padre diceva sempre che un'auto si adatta allo stile di guida del proprio padrone. Alcuni stili dovevan essere proprio inguardabili, perché loro tornavano e avevano bisogno di essere rimesse a posto.

Qualcosa resta sempre, anche solo impronte su carcasse all'ultima corsa. Tracce di un passaggio, appunti sul taccuino che reclamavano il cambio di olio e filtri.

E poi, rimesse a nuovo, autonome, sicure, dovevano correre da sole, sapendo che è sempre possibile ammaccarsi, ma che è sempre possibile riprendere la strada.

Quando ne mandavo via qualcuna, sembrava che mi guardassero con disprezzo. Forse pensavano che volessi negare loro la mia assistenza.

Ma una carrozza trainata prima o poi dimentica come è fatto l'asfalto e non sa tenere le curve. Faglielo capire.

 

venerdì 5 agosto 2011

How do you do?

- Cosa stai facendo?

- Sto guardando un film.

- Un film?

- Sì, un film.

- Quale film?

- Amici miei.

- Ah.

- Be'?

- Niente.

- Eh, no! Come, "niente"?

- No, no, niente..

- Ma come? Vieni, osservi, ti esprimi, non può essere "niente".

- No, no, niente.

- Eh, sì, che poi si deve vivere per forza di ansie, di inquieudini e sensi di colpa senza neanche sapere il perché, vero?

- Che stai dicendo?

- Niente.

mercoledì 3 agosto 2011

Agenda esistenziale


Al mondo non gliene frega un cazzo, sapessi a me:




- sinceramente il nichilismo non era uno status esistenziale biasimabile: si commentava molto e si viveva poco. Il solo accorgersi che talvolta lo si guarda con malinconica nostalgia, è sintomo evidente dell'insoddisfazione di default che permea l'esistenza come una peritonite dalla quale non vi è scampo. Indi il nichilismo è una scienza esatta, senza dubbio alcuno.



- premesso questo, la felicità può esistere, non vi sono abituato, ma esiste. Conviverci è disgraziatamente complicato, ma proiettando immagini future forse anche il valore attuale del capitale vitale può incrementare il proprio valore. Il CAPM applicato alla quotidianeità non era sperimentato al meglio, quindi non saprei.

- confermo: esistono persone che sono sterili surrogati alla masturbazione.

- ti svegli una mattina e capisci che essere buoni è solo un viatico all'inculata. Banalità estrema, lo so, però il dolore lo senti lo stesso.

- la crisi finanziaria ci seppellirà come carogne non del tutto prive di vita. Ma ce lo meritiamo, tranquilli.

- sono troppo giovane per alcuni, ma serenamente affermo che sembro più vecchio.

- piaccio a lei, e non a sua madre. Forse è la volta buona. Il teorema de "Il laureato" non si applicherà.

- litigo con  un essere umano a settimana, media accettabile; se comprendessi le ragioni di questi livori saprei infondere ulteriori sforzi per migliorare la media.

- mi piace kundera, ma anziché letto, va studiato lentamente.

- mi guardo allo specchio e penso: se avessi qualche chiletto in meno, mi depilassi, mi curassi la barba e mi tagliassi i capelli regolarmente, sarei un bel ragazzo. Peccato. Vizi di fondo per chi ama molto la potenza e se ne fotte dell'atto.

- i grancereali col tonno son buoni. Provateli.

- colui che comprenderà che le fette biscottate sono gustabili sia col dolce che col salato, senza doverlo provare empiricamente, entrerà nel regno dei cieli, e siederà al mio fianco.

- non sono blasfemo. Tendo a irrobustire quel vago sospetto di essere fatto ad immagine e somiglianza del creatore di questo bordello con pochi  orgasmi degni di nota.

 



di perduti capelli e di future realtà
di bei ricordi andati a male

di bugie per amore e amori senza pietà
e di occasioni al vento

mercoledì 27 luglio 2011

Le invasioni barbariche


R. accese una sigaretta, chiuse la macchina e si diresse verso la porta di casa. Man mano che si avvicinava teneva la sigaretta il più possibile nascosta nel palmo della mano piegato a coppa, e con il braccio steso, tendente a celarsi dietro la schiena.

Tirava fumate rapide e frequenti. Se qualcuno l’avesse visto fumare non sarebbe successo nulla, ma lo sguardo riprovevole di suo padre, che di lì a poco sarebbe giunto anch’egli in prossimità del portone, era quanto di meno sopportabile vi potesse essere, soprattutto dopo una serata di indigestione da parenti.

Una volta s'era abbandonato ad uno sfogo nella cui requisitoria ricondusse, con deplorazione, le cause della sua irascibilità sociopatica  all’attrito vischioso con cui si sviluppavano le conversazioni apparentemente più innocue tra lui e i suoi vecchi.

Suo padre, che riteneva di essere invaso da una innata condizione di impunità, non riteneva plausibile l’ipotesi sostenuta dal figlio, secondo la quale  sarebbe stato lui l’induttore della condizione disadattante del proprio pargolo, e che l’incessante opera di messa in luce delle manchevolezze da parte di quest’ultimo rientrasse nel novero delle indispensabili competenze paterne, volte al progressivo ripristino della perfettibilità dei propri derivati cromosomici.

In virtù di questa missione egli sarebbe stato l’infallibile censore di ogni azione dei propri figli, nonché il vate pronto a svelare anzitempo le conseguenze di ogni loro proposito, facendosi beffe del simulacro ordinario dell’imprevedibilità degli eventi.
Era un rigido assertore della programmazione, e non riconosceva smentite, poiché negli anni aveva accumulato un forziere di giustificazioni applicabili a qualunque situazione.

Mentre R. indugiava con la sua sigaretta sotto il portone, osservava con una parvenza di invidia la leggerezza con cui gli avventori del bar lì vicino seguitavano  ad accumulare vuoti a rendere di birra, discutendo animatamente circa le modalità di conservazione della ‘nduja calabra, e dei processi di lavorazione dello champagne.
Parole distinguibili tra rombi di motociclette, palle di biliardo che rimbalzavano al suolo, bestemmie di ogni genere e risate accalorate.

La contemplazione di tale eldorado fu bruscamente interrotta dall’arrivo della macchina paterna. Il finestrino si abbassò e lo sguardo del padre conducente si fece più distinguibile.
Quei pochi secondi di silenzio sembrarono pesantissimi ad R., che senza alcun motivo,  sentì di dover giustificare l’indugio sotto il portone. Fece finta di frugare nelle tasche della sua giacca ed estrasse solo foglietti a caso.

-  Non trovo le chiavi di casa. Le ho lasciate in macchina. Spero ci sia qualcuno che possa aprire il portone.

Il padre non disse nulla e andò a parcheggiare il mezzo. R. suonò il campanello e rientrò a casa.

Sentì d’essere scosso dopo che s’era appena assopito dinanzi alla tv che trasmetteva la rassegna stampa del giorno dopo.

- Vai a recuperare le chiavi di casa dalla macchina. – Impose suo padre.

- Ci andrò domattina.

- Ci vai adesso, così impari a dire ad alta voce che le chiavi di casa tua sono in macchina, informando la platea dei probabili scassinatori che popola il bar, su come svaligiarci senza fare tanto rumore.

R., si convinse del pericolo, si rivestì e tornò verso la sua auto per recuperare le chiavi di casa. Aprì lo sportello e le chiavi non c’erano.
Cercò dappertutto ma delle chiavi di casa, in macchina, non vi era traccia.

Rientrò a casa e comunicò a suo padre l’esito negativo della missione, lasciando che fosse lui a far emergere le conseguenze di quello stato di cose.
E per suo padre non vi era alcun dubbio: gli scassinatori che popolavano il bar, appena furono edotti dell’ubicazione delle chiavi del loro appartamento, dalle avventate parole di quello scriteriato di suo figlio, cessarono immediatamente di conversare sui metodi di conservazione della ‘nduja calabra e avevano provveduto ad aprire la macchina di R. per impossessarsi delle chiavi in maniera pulita e senza lasciare traccia, riuscendo persino a richiuderla per non destare sospetto.

Egli sapeva benissimo quanto si fossero evolute le tecniche raffinatissime di scassinamento eseguite in maniera delicata e chirurgica.

Una volta il padre di R. sentì di scassinatori che usavano un particolare gas sedante che consente l’esecuzione notturna dei furti mentre le vittime sprofondavano in un sonno quasi comatoso.
Era sicuro che il loro appartamento prima o poi sarebbe finito in cima agli obiettivi sensibili delle bande che imperversavano in tutta la provincia.
Quell’idiota di suo figlio aveva agevolato la scalata nella top ten dei colpi “sicuri”.

Quella notte non dormì, perché prima o poi sarebbero giunti e avrebbero aperto facilmente il portone con le chiavi di R., avrebbero liberato il gas, e lui al suo risveglio non avrebbe trovato neanche  i cessi del bagno.
Ogni minimo rumore lo insospettiva e gli imponeva di alzarsi da letto per controllare che non vi fosse nessuno in casa. Girava per le stanze da letto, e giungendo nella stanza di R. lo vide dormire tranquillo, digrignando come sempre, e sprofondato nel suo sonno indifferente alla perniciosa sorte che di lì a poco sarebbe capitata per causa sua.
Avvertì un senso di frustrazione e rabbia per la mancanza di condivisione del dramma, proprio da parte del suo principale responsabile.

Ma la notte trascorse senza alcun tentativo di scasso. Il padre di R. asserì che era prevedibile, che una banda di professionisti non avrebbe agito immediatamente, perché si sarebbero aspettati delle contromisure immediate che notte dopo notte sarebbero state allentate da una falsa rassicurazione.
Egli non sarebbe stato gabbato, a differenza di quello che i malfattori pensavano.

Ogni notte avrebbe vigilato per controllare l’origine di ogni minimo scostamento d’aria in casa. Ovviamente non si fidava minimamente della collaborazione di moglie e figli, soprattutto quando la causa di quell’imminente sventura  era stata proprio la noncuranza  di uno di questi.
Era cosciente che avrebbe dovuto compiere quell’eroico salvataggio da solo. Non dormì per giorni divenendo sempre più intrattabile e severo, intollerante e iroso.

Dopo una settimana molto complicata R. decise che avrebbe dovuto porre fine a quel tormento da lui cagionato e che si ripercuoteva sulla tenuta mentale del padre, minando la consistenza stessa della sua famiglia.
Approfittando di una passeggiata investigativa del suo vecchio, decise di agire autonomamente, per dimostrare che anche lui era in grado di fare la sua parte per tutelare l’integrità dei suoi cari.
Fece cambiare la serratura della porta di casa, in maniera tale che anche se gli scassinatori fossero giunti non avrebbero potuto utilizzare le chiavi che egli aveva incautamente dimenticato in macchina.

Si sentì soddisfatto perché per la prima volta aveva posto rimedio ad un danno gigantesco derivato dalla sua insicurezza insanabile, ed alla quale s’era ormai rassegnato. Quel gesto riparatore lo avrebbe riabilitato al severo giudizio del padre e gli avrebbe infuso la tranquillità di non essere una merda di  livelli irrecuperabili.
Per la prima volta attese il ritorno del padre per giovarsi del meritato premio al coraggio.

Il padre tentò di aprire la porta di casa con le sue chiavi e non ci riuscì, così, sospettoso, suonò il campanello. R. corse ad aprire.

- Che è successo qui?

- Perché?

- Le mie chiavi non funzionano, e cos’è tutta questa polvere intorno all’uscio?

- Papà ho fatto cambiare la serratura, per stare più tranquilli. Adesso non c’è più da preoccuparsi. – Pronunciò quelle parole con insolita fierezza.

- Sei un coglione, R. 

- Perché papà?

- Una volta giunti sull’uscio di casa, annusata la preda, pensi che si fermeranno dinanzi ad una contromisura così scontata? Possedere le tue chiavi, stronzo, li avrà talmente allettati che una serratura nuova non basterà a farli desistere. Scassineranno la porta, ecco che cosa faranno! E magari diventeranno anche violenti se qualcuno dovesse tentare di intervenire per via del rumore che saranno costretti a fare. Potrebbe scapparci il morto, imbecille, capisci!!! Tua madre o tuo padre potrebbero morire perché un cazzone come te ha dimenticato le chiavi di casa in macchina, e lo ha urlato ai quattro venti.

- Ma io pensavo che….

- No! Tu non devi pensare! Dov’è la vecchia serratura?

- Nel ripostiglio.

- Vai a riprenderla.

- Vuoi rimontare la vecchia serratura?

- Certo, imbecille, continueremo le ronde. Anzi, TU continuerai le ronde.

Dopo qualche giorno, la madre di R. lavando la giacca di R. vi frugò nelle tasche, e vi trovò le chiavi che si pensava fossero state trafugate dagli scassinatori.

- È un cazzone, lo sapevo io. – Sentenziò il padre di R.

venerdì 22 luglio 2011

Babilonia


[Gesù in un locale di Drag Queen - si ringrazia ChuckIrvine]



- Che ti do?

- Ho voglia di un calice di Brunello, di quello buono. Oh, cavolo, dopo tutti questi millenni avete ancora nervi per ascoltare la musica a questo volume?

- Non ce l'abbiamo il vino, tesoro. Solo miscele infernali. E se non ti piace la musica puoi accomodarti nel dormitoio in fondo alla strada. Conciato da pezzente, con quegli stracci, forse ti lasciano entrare. Ma non fare accattonaggio sul sagrato della chiesa, rischi un verbale dal vescovo.

- Ahia, una fitta, ho ancora il costato infiammato. Orsù, dammi un calice con dell'acqua naturale,  ché ci penso io.

- Tu non sei di queste parti. Qual'è il tuo nome?

- Uhm, chiamami pure Emmanuel.

- Dimmi un po', Emmanuel, ma chi è il tuo parrucchiere, Jeffrey Lebowski?

- Ah-Ah-Ah.... Simpatica. Stronza.

- Eccoti l'acqua, sciacquati le viscere. E una volta purificato, puoi divertiti con quel donnone travestito da ombrellone da spiaggia che ti sta fissando da quando sei entrato. Ah, eccola, vi lascio soli. Il privé costa solo 30 denari.

---------------------

- Guarda, guarda chi si rivede.... Emmanuel!

- Ci conosciamo? Ricordo la samaritana al pozzo, la veronica, le pie donne, ma non mi ricordo di aver mai rivolto la parola ad un abat-jour con il silicone nelle labbra.

- Ahahahah. Ci mescoliamo alla confusione nella quale è precipitato il creato, ragazzo. Guardami bene.

- Ga-Gabriel?

- Non Gabriel, ma "Gabrielle", adesso.

- Oh, acciderbolina, sto perdendo colpi.

- Che succede?

- Niente, anziché in Brunello, l'ho traformato in Chianti. Il Chianti fa schifo, non lo farei bere nemmeno a Giuda. Non ci farei lavare nemmeno le mani a Pilato.

- Come mai sei venuto qui, ragazzo? A proposito, lo sa tuo padre?

- Ci son capitato per caso. Avevo voglia di svagarmi un po', di provare a divertirmi con qualcosa di alternativo. Sto troppo male.

- Che hai? Ti sei reso conto dopo duemila anni di essere stato un incompreso?

- No, quello era già insito nel sacrificio da me compiuto. Solo alla rottura del settimo sigillo capiremo se ne è valsa la pena. Verrà una nuova Babilonia.

- Hai fatto la tua parte in maniera esemplare, Emmanuel. Meriti un po' di emozioni forti. Vuoi divertirti con un'amica? Non dirmi che ti sei rassegnato al catechismo edito dalla Paoline Edizioni?

- No, Gabriel. Oh, perdonami, "Gabrielle". Non sono in animo di svagarmi.  Soffro. Maddalena se n'è andata e non riesco a trovarla. Dal giorno dell'ascensione, è sparita lasciando un vuoto grande più del mare. Non me l'aspettavo. Son duemila anni che vago.

- Forse posso aiutarti.
Io so dov'è.

- Dimmelo, Gabrielle. Ti prego. Poni fine al mio tormento... Non dirmi che anche lei s'è fatta ingaggiare in un postaccio come questo?

- Ma postaccio le corna di satana! Sai quanto guadagno io in una sera? Be' tu non lo puoi neanche immaginare. Altro che pescherecci del Mar Morto. Tzé.

- Va bene, dimmi dov'è, Gabrielle.

- Via Olgettina, Milano 2. Ma stai attento. Devi aprire il portafogli per riconquistarla. Con la povertà ti sciacqui lo scroto oggigiormo.

- Babilonia.

- Sì.

 

mercoledì 20 luglio 2011

Gates


"Desiderava fare qualcosa che non lasciasse la possibilità di ritorno. Desiderava distruggere brutalmente tutto il passato dei suoi ultimi anni.
Era la vertigine.
L'ottenebrante, irresistibile desiderio di cadere.
La vertigine potremmo anche chiamarla ebbrezza della debolezza. Ci si rende conto della propria debolezza e invece di resisterle, ci si vuole abbandonare ad essa. Ci si ubriaca della propria debolezza, si vuole essere ancor più deboli, si vuole cade in mezzo alla strada, davanti a tutti, si vuole stare in basso, ancora più in basso."



La regina di Itaca doveva possedere una tenacia fuori dal comune. Ella tesseva e sdruciva il medesimo ricamo ogni notte, e nel continuo ritorno del suo ago lungo l'esperito tragitto del suo filo guidato da mani sicure, rafforzava il senso della sua attesa. Traeva da essa la forma che sostanziava il suo tempo, nell'affidamento certo di tutte le grazie ad un moto che si ricaricava di ferme convinzioni ad ogni punto di ripresa.

Riempì la sua borsa all'ultimo momento, mentre aspettava l'autobus sotto casa i suoi piedi disegnavano cinconferenze sghembe sul terreno appena madido della prima pioggia d'estate. Il terriccio sotto i faggi conservava l'impronta della punta delle sue scarpe. L'attesa le rielencava il contenuto del suo bagaglio leggero che non le lasciava alcuna striscia di fatica sul palmo delle sue piccole mani chiare.

Portava con sé un cappello dalla frangia larga. Tutti gli oggetti essenziali che le avrebbero consentito di rilanciare al tavolo della vita li aveva lasciati a casa. La sua biancheria intima era perfettamente accatastata per riempire borse che sarebbero rimaste lì, aperte e mai riempite.

Aveva portato con sé un accendino, nonostante non fumasse regolarmente. L'aveva trovato qualche giorno prima in cucina. Un suo amico l'aveva lasciato lì dopo aver acceso una sigaretta a cena, non  prestando alcun ascolto alla sua richiesta di non fumare in casa.
Anche G. perdeva spesso l'accendino, e lei pensò che gli sarebbe stato utile quando sarebbe successo, e lui le avrebbe offerto da fumare. Pensava che G. avrebbe acceso la sua prima sigaretta dopo averla salutata e baciata, non prima.

Aveva lasciato a casa anche l'ultimo paio di scarpe di tela bianca che aveva comprato, semplici e comode, per preservare le sue caviglie dalle lunghe passeggiate. Si giustificava adesso raccontandosi che avrebbe passeggiato scalza.

Con larghissimo anticipo spense il suo cellulare, si sedette sul margine di una vetrina su cui campeggiava enorme la scritta SALDI, e poggiò il suo viso tra le mani a coppa.
Si accorse che tendeva inconsciamente ad allungare la gonna verso il ginocchio, come a scacciare via la sensazione di sentirsi nuda, di sentirsi spiata. Da qualche tempo le sembrava che anche gli sguardi più distratti riuscissero a pungerla oltre le vesti e la carne, che la sua vita fosse divenuto uno spettacolo gratuito da serata estiva al parco.

Su ciascun volto coglieva un'espressione riprovevole che testimoniava la partecipazione dell'intera platea umana alle conversazioni che intavolava con se stessa. Corti improvvisate che sentenziavano in pochi secondi la loro versione circa le sue conversioni.

Il monitor del gate annunciava l'avvio delle fasi di imbarco. Era certa che dall'altra  parte della rotta aerea ci fosse G., ansioso, che contava i minuti disegnando circonferenze sghembe. Le venne un sorriso denso d'affetto e si sentì all'improvviso colta da un senso di leggerezza. Si sentì sollevare, accompagnata da una stretta di mano in mezzo a tutta quella gente.

S'alzò, e vide che la confusione si stava organizzando in code. Afferrò la sua borsa e, inaspettatamente, inciampò.
Si scoprì che inciampava nei viottoli della leggerezza.

Ferma. Si ravvivò il rossetto sulle labbra e si passò una mano tra i capelli. Voleva sentirsi bella, e il suo specchio era la vetrina in rifacimento che campeggiava davanti a lei. Passi di ogni genere attraversavano il suo riflesso rivelandole tutto il suo immobilismo.
Si scoprì forse ancorata al suolo, mentre la coda di gente si rinforzava.

Stava per cadere, e avvertì il brusco risveglio. Riprese il rossetto dalla borsa e cominciò a passarlo più volte sulle sue labbra, voleva essere certa che la sua bocca esistesse ancora, e non le fosse strata strappata via all'urto con qualche vitrea parete di cui non avesse percepito la presenza. Non riusciva a distinguerla bene, la sua bocca, nella distanza di tre metri dalla vetrina nella quale si vedeva riflettere, e che veniva attraversata da viaggiatori di corsa.
La fase di imbarco stava per concludersi, lei nella coda non si era ancora inserita.

Un distinto signore di cinquant'anni le passo accanto e le sorrise. Le aveva camminato lentamente intorno senza che lei se ne accorgesse per diversi minuti. Finché si fermò e le chiese se avesse tempo per un caffè, e se per caso la fortuna li avesse condotti sullo stesso volo.
Lei non rispose, ed egli provò ad insistere con atteggiamenti languidi. S'accorse che lo sguardo  del cinquantenne s'ammantava di un'aria volgare ed era concentrato verso il suo culo con cui sembrava volesse toccarla e afferrarla brutalmente.
Lei strinse le braccia intorno al corpo, come se volesse proteggersi da quello sguardo che potesse accorfersi della sua nudità. E non disse nulla.

Il distinto signore, stizzito, mordicchiò un insulto con una smorfia che sembrava scacciarla via dal gioco normale degli esseri umani, dai loro mescolamenti superficiali e codificati dalle leggi dell'effimero che inflaziona l'appagamento per annullare la fame.

Un brivido la percorse, e si sentì smarrita. Come se avesse subìto un tentativo di scippo all'uscita del carcere.
Prendere quell'areo sarebbe stata una scelta in cui avrebbe dovuto risarcire la leggerezza con responsabilità.
Tutti gli sguardi si trasformavano in mani seduttive che provavano ad afferrarla, spogliandola dal peso della scelta, dissipando in una polvere di infinite
stazioni appaltanti la gestione degli spazi della sua felicità, fonti straniere al suo autonomo  discernimento.
La convinzione che il governo di quegli spazi potesse tornare completamente nelle sue mani, e nella sua volontà, ora sembrava spiazzarla e la atterriva, provocandole un senso di nausea.

Al contrario, conosceva le pareti della sua stanza senza doverle cercare con gli occhi. Quella leggerezza sembrava ora soffocarla, si sentiva lanciata ad alture con parole di scarsa densità materiale sulle quali avrebbe dovuto poggiarsi senza badare alla possibilità di cadere.
Quel valore richiedeva una fede sterminata dal sapore nuovo, differente dai pasti di cui s'era nutrita fino ad allora.
L'abitudine induce una mano a scorrere lungo un telaio e ricamare trainata da gesti sicuri e consolidati.  Le uscite di sicurezza le riconosceva camminando a gattoni in caso di incendio, segni distinguibili sono tracciati su ogni terreno.



dimmi, senza un programma, dimmi come ci si sente



L'ultima chiamata delle assistenti, e la fretta dei ritardatari che la evitavano senza guardarle il culo.
Prese il rossetto dalla sua borsa e lo lasciò scorrere ancora una volta lungo le sue labbra. Si scompigliò i capelli e riaccese il suo telefono.
Cercò il numero di un vecchio amico di scuola.

- Vieni. Riportami a casa.

 



dove un attimo vale un altro

mercoledì 13 luglio 2011

Sussidiari illustrati di errori futuri


L'alfabeto è la chiave, non un susseguirsi annoiato di segni convenzionali. Una conquista del codice con cui attutire i colpi di maglio slanciati per scalfire il marmo e sancire una forma che non ammette errori. Perché se il colpo ferente è troppo brusco, le scaglie avvizzite non torneranno al loro posto. L'intera sagoma sarà ridiscussa, riconcepita, o al più tardi abbandonata.

Solo qualche graffio sugli stinchi, la stampella l'ho rifiutata finanche quando strisciavo.

Leggere è scegliere di appropriarsi, prestarsi al racconto è un deponente farsi scegliere da soppessare con immensa fiducia.

Mamma, doveva essere così alto il muro? Perché io da qui non vedo nulla. Questo è l'orario dei battelli, ne salpa una tra tre ore, e per ora l'imbarcadero è deserto, la battigia restituisce scorie di porti distanti. Forse mi sono sbagliato. Non salperà nessun battello. Nessuno se ne cura, nessuno avverte il gocciolare lento dei momenti che si approssimano agli orari scritti sulla tabella in mio possesso.

Controllo la data, ma i giorni sono uguali, non ci sono stagioni, solo settimane composte da numeri neri e numeri rossi. È troppo presto, dici, mamma? Ma io sono andato via, e sei un'estranea per me questa sera. Ascoltarti non rende questa attesa meno normale di altre.

Il mio libro nero è un puzzle di alfabeti stranieri che non so più interpretare. Le ultime pagine mi ricordano quanto è importante spazzolarsi i denti prima di andare a letto.
Non provare a baciarmi, puzzo di fumo dalle dita fino alle labbra.

Mi perdo spesso, ma una direzione non l'ho mai cercata. La volta celeste gira su se stessa ed il cielo non cambia mai. Il suo moto millenario sfugge alla percezione che una inutile vita abbozzata dai carboncini del caso può ponderare.

Quando smisero di perquisirmi controllarono un'ultima volta l'immagine sul mio documento. Non capivo il loro linguaggio rapido e convinto. Mi condussero in una sala piena di monitor su cui sfogliavano li profili dei figli degli uomini. Ci misero un bel po' a capire chi fossi, ed io a ricordarmi di me.
Nelle mie tasche vi era un foglio di carta con scritto un'indirizzo e due numeri di telefono, un biglietto di autobus usato, un pacchetto di sigarette e un accendino.

L'accendino mi fu requisito da un agente sorridente. Poi mi lasciarono andare, e mi mancò l'algida freschezza di quelle stanze bianche e refrigerate dai climatizzatori.

Avevo la percezione che la vita facesse schifo, e che fosse terribilmente breve. Fuori c'era un'afa diluente, ed in quelle stanze occorreva una giacca ben stretta sui fianchi.
Sui giornali la notizia di un poveraccio che si era trasformato in un rogo per accorciare gli effetti della fame e della miseria.

Mamma non c'è nessuno questa volta, e mancano solo poche ore al mio battello. Nessuno si cura di questa partenza, forse restermo qui, e non incontreremo nulla al di fuori del perimetro pisciato dalle nostre anime.

Non mi hai salutato per non disturbarmi.



 

domenica 3 luglio 2011

Il Pitone


Domani è già qui, lo sento. Scorre dappertutto e mi si pone accanto, come un pitone.

- Dottore, il pitone è tanto caro. Lo faccio dormire accanto a me, mi vuol bene. Deve sapere che prima riposava nella piazza accanto alla mia, racchiuso nelle sue spire, timidamente. Adesso è da qualche tempo che il pitone è disteso in lungo, come se volesse guardarmi diritto negli occhi, mentre dormo.

- Le ha dato un nome al suo pitone?

- L'ho chiamato Vita.

- Se ne liberi immediatamente, lo liberi.

- Perchè?

- Le sta prendendo le misure.


Io te lo dissi, cara, di non prestare ascolto a quello che scrivo durante le mie incursioni sul lato oscuro della Luna. Perché lì avrei scaricato il male per vivere il meglio. Ma tu non mi hai ascoltato, ed hai preteso di mescolarti al mio male ancestrale, di sentire nei guizzi dei  giorni inquieti le tue impronte.
Non esistono persone sicure in questo mondo. Solo armonie di debolezze. E quanto viene spacciato per sicurezza posticcia, nelle migliori delle condizioni, è soltanto un'adeguata cognizione dei limiti.

Un abbozzo della propria immagine riflessa in HD nell'autoconvicimento al plasma.

E alla luce risalirà una galleggiante risata.

Finisce tutto in una risata non propriamente amara. In tutto questo si traduce, probabilmente, il lato oscuro di chi sembra risolutamente condannato ad arrivare secondo e sconfitto. A rasentare il trionfo e a vederlo consegnare ad altri più predestinatamene meritevoli, senza invidia alcuna.

I giorni scarabocchiati da un cieco veggente, possono riservare pagine intere a nuove metafore.

Così ridendo, ti passerò accanto come alito di vento che soffia soltanto affinché si possa lambire il tuo volto. Scavando basse pressioni nel cielo per passarti accanto senza disturbare, quasi chiedendo scusa di quel passaggio. Perché non vuole che
questo traguardo sia consegnato in altrui bramose fortune.
E se la riconoscerai, questa brezza, potresti anche coglierne dentro la lieta melodia di chi non è abituato alla felicità, ma solo a fotocopie sbiadite di romanzi d'annata. Ottime annate a bianco e nero.

Se mi riconoscerai, questo domani non avrà le ore contate. C'è una venticinquesima ora in fondo ad ogni giorno, un'ora non scritta dai mistici delle narrazioni figlie delle medesime promesse di ieri.



 

sabato 2 luglio 2011

No-è


La pioggia torrenziale diventava sempre più insistente. R. controllò i materiali a sua disposizione e si rese presto conto che non avrebbe raccolto abbastanza legname per costruirsi un'arca capace di trasportare un rappresentate per ogni specie vivente del suo microcosmo.
Nemmeno una zattera monoposto, neanche un veivolo in fibra di carbonio che avrebbe consentito una docile trasvolata ai piani ammezzati del cielo, dove si preservava una fredda quiete.

Per costruire un'imbarcazione non sarebbe bastata la cartapesta ottenuta da un miscela di colla e carta straccia ricavata dalla sua immacolata biblioteca personale. Per questa ragione decise di uscire con un ombrellino del tutto inutile per i colpi trasversali e ventosi.
Tutto ciò che non vale la pena combattere, lo si aiuta ad invaderci.

Ché quell'imperfezione sarebbe risalita da un lato fino alle sue ginocchia, discesa dall'altro nei rivoli che avrebbero attraversato il suo capo e gocciolato a terra dalla fronte.
La sua casa era un brodo inquieto. Dove nottetempo fiorivano acidi nucleici elettrici.

I momenti topici sono sempre state puntine di compasso intorno a cui disegnare la circonferenza della retromarcia. Lungo la curva insistono innumerevoli centri di ristoro con offerte stracciate su cataloghi di alibi in svendita ai saldi di fine giovinezza.

- Ti va di parlarne, Alcor?

- No.



If I were afraid
I could hide

If I go insane
Please don't put your wires in my brain



 

giovedì 30 giugno 2011

La Terza Repubblica


Il peggio che può capitare ad un "dalemiano" temporaneamente in crisi di liquidità, è imbattersi in un amico militante di Futuro e Libertà che ti si accosta incessantemente per propinarti l'acquisto dei biglietti della lotteria del nuovo partito della destra italiana.
Tra i premi un succulento abbonamento annuale al Secolo d'Italia.

E chi lavora giornalmente, sporcandosi le mani e la mente nell'intento di costruire una larghissima coalizione tra le forze apparentemente democratiche di  questo paese per dare corpo alla Terza Repubblica, non può non tendere una mano ad un possibile alleato.

Anche a costo di restare a secco, di soldi e di dignità.

lunedì 20 giugno 2011

L'anestesia


Molto lentamente si consuma e si dirada questo tanfo di legno bagnato.

Lascia riaffiorare il sapore insito nello sbattere la porta e andarsene, nella cognizione completa circa la natura dei gesti. Riemerge un volitivo prurito sotto i talloni laddove avanzavano duroni da stasi.

Sgorga finanche l'ansia dai nervi raffermi, e ripropone il suo sapore eretico che sa di anima umana.
E si lascia bere.

 



domenica 12 giugno 2011

Introduzione


And if I show you my dark side
Will you still hold me tonight?

And if I open my heart to you
And show you my weak side
What would you do?






Una piccola suite al riparo di avventori saccenti. Un attico da cui rimirar la radura delle notti vischiose, allor quando  si sfaldano bastioni  di cristallo e resta il fremito di parole piantate come filari di rose ai margini tra i sogni e le attese.

Non è una tenda dove nascondersi, né una scatola graffiata in basso rilievo nella superficie del nostro cielo per allontanare spocchiosamente la realtà.

Non voglio che tu sia solo un sogno che aspira la vita come in un sacchetto delle macchine worwerk. Dobbiamo invadere i nostri giorni e renderli degni di noi.

Una culla. Un giaciglio di lino bianco dove far giacere i pensieri che da te promanano e in te si riappagano.

Tutte le volte in cui darai una veste a tutti i miei desideri, e li dipingerai con la tua pelle, mi troverai qui.

venerdì 10 giugno 2011

Nana Bianca


Sono un cortina che traccia il confine tra il buio che ingoia se stesso, e la placenta di una nuova luce.

Raccolta come sostanza. Coltivata per incendiare i terrapieni silenti che ti fanno ombra.

Non strariperò lentamente, e non acconsentirò all'effluvio lascivo di liquami di scarico dai vecchi acquedotti  dell'esperienza.



Inonderò di notte, ricongiungendo isole spaiate.

mercoledì 8 giugno 2011

Ammissioni


Ho fallito, lo ammetto. Ma non perché all'epoca immaginavo di piazzare stabilmente il mio uccello tra le tue grandi labbra, e codesto intento si rivelò immediatamente impraticabile in un'ottica di lungo periodo.

Anche nelle più spregevoli delle vicende umane, anche quando cala un'ingestibile amnistia nei reciproci livori, può capitare che una illogica serenità possa agevolare la conservazione di residui frammentati da riporre nei barattoli delle conserve di frutta.
Come lombrichi imbalsamati.

Non è rimasto nulla di quella pallida immagine di ciò che eravamo. Neanche il fotogramma più sano che ci sorprese compagni almeno nello studio, quando trascorrevamo il nostro tempo a discutere di in house providing.

Perché nonostante questo voterai SI al referendum sull'acqua.

lunedì 6 giugno 2011

Princess in the wind


Sto riascoltando quella canzone Alcor.


E ho voglia di abbracciarti.


E se ora hai intenzione di dire qualcosa che possa rovinarmi questa immagine.


Ti prego, non parlare.

mercoledì 1 giugno 2011

Another Brick Breaker in the wall


Possono definirsi discrasie sociali, o si tratta di quegli attimi banalmente vuoti in cui nessuna delle variabili che agitano la biosfera sembra avvertire l'impatto della propria presenza.

Imbrunisce senza un senso e immagino di chiacchierare con Foscolo, mentre accendo un toscanello. Dopo un po' egli s'è addormentato teneramente, quando s'è toccato il fecondo punto del marxismo antropologico, così gli rimbocco le lenzuola, e gli do un bacio sulla fronte. Piccolo Foscolo.

Mi sei crollato così, a piombo sul bauletto portavalori del mio compare. Avremmo telefonato al bar, qui sotto. Il garzone ci avrebbbe portato un succo all'ananas, un caffè, e due pasticcini al tiramisù. Affinché questa scialba forma di attesa ci sembrasse più potabile.

So che non devo cedere, ma ieri mi sentivo un po' più bravo di oggi.

venerdì 27 maggio 2011

Bell


Se avessi la consistenza del rintocco di una campana, non sarei capace a riascoltarmi nei campanili di una bellissima chiesa. Manca l'abitudine, e c'è troppa cattiveria.

giovedì 26 maggio 2011

La casa sul mare - 5


V
Intanto una voce di un vecchio si levava anch’essa da quella casa vicina. - Vera! Vera! Torna qui brutta bambina stupida… - Imprecava, chiamava, apostrofava la bambina.
– E’ tuo nonno, vero? - chiese lui, vergognandosi della pietà per quella povera anima ancora immune dalla realtà cruda.
- Sì, mio nonno è tanto severo, ha un fucile, dice che serve per far paura all’uomo cattivo che abita a casa tua. – Sorrise. – Si… fa tanta paura il fucile del nonno, tanta.

La piccola ebbe un sussulto improvviso verso di lui. - Vieni con me, quella casa è brutta, andiamo sul molo e aspettiamo papà!
Senza che lui potesse far nulla, Vera lo prese per mano e lo fece camminare con lei. Lui sentiva le sue gambe zoppicare accanto a quella piccola che gli curvava la schiena. Si lasciava condurre, senza opporre resistenza senza più ascoltare le voci che da quella casa sentiva levarsi verso la sua guida dai riccioli biondi.
Lei lo trainava e più camminava più si sentiva leggero, più riacquistava la linfa nelle gambe, più l’odore torbido della casa sul mare si disperdeva nell’odore del mare che sentiva vicino, sempre più vicino.

Raggiunsero il molo. Era freddo e nero, continuamente bagnato dalle onde, stretto e vecchio. Pareva un ponte in rovina, una pensilina collocata sul mare per attraversare a piedi le acque. Nessuna barca era ormeggiata ai suoi lati.
Attendeva anche egli di sprofondare nell’alta marea. Non se ne era accorto, ma all’estremità del molo questo aveva ceduto all’erosione del mare, e la punta era crollata in diversi blocchi di pietra franati chissà da quanto tempo. Erano ricoperti di alghe e di liquami sedimentati sulla roccia.

Guardò quel ponte interrotto, mentre un canto sottile e sussurrato dalla piccola accanto a lui che dondolava il suo braccio, per un attimo zittì il vento, e assopì il mare. Il molo pareva allungarsi, il ponte sembrava non interrompersi più e fuggire verso il cielo, sembrava una strada agevole che il suo cuore riusciva accogliere con sobbalzi sempre più miti, lontani dalla stanchezza, prossimi al tepore di settembre.
La spiaggia lontana appariva adesso pulita e chiara nel tramonto, l’acqua era immota man mano che ci si allontanava dalla battigia, ondeggiava con ansia, ma senza alcun impeto. L’acqua cheta assomigliava al mesto placarsi del suo respiro. In quel punto, con la piccola Vera, il suo affanno pareva predisporsi a svanire.
Vide anime e destini percorrere quell’acqua, passi e racconti, storie di naufragi e rimorsi raccontavano i primi riflessi della sera che rendevano invisibile il fondo bruno. Ed il mare narrava mille voci disperse, di gente che non tornava ai suoi cari, che lì però avevano incontrato la pace, altre infinite e invisibili dimore tra le onde, scrigni intoccabili, solcati dal vento e calpestati dagli angeli.

Lì apprendeva in quel silenzio accarezzato dai versi della piccola Vera, che la speranza riposava nell’immensità del mare, che la pace sarebbe stata il mescolarsi supino tra il calpestìo delle fate e degli angeli sulla superficie che evaporava verso il cielo… avrebbe voluti sciogliersi lì, ed evaporare anche egli, lasciando al mondo un umido pugno di sale.
Già sentiva mescolare le sue membra fra la spuma argentata che sgualcita si dissipava in superficie, e mentre calava tiepido il crepuscolo, quella tavola vitrea appariva sempre più lontana dall’abisso che soggiaceva nel buio delle acque. Avrebbe allungato docilmente i suoi passi salutando la piccola Vera che lo aveva condotto verso quel ponte tra la morte e la speranza.
Si sarebbe annullato nei meandri in cui riecheggiava ancora il sorriso del suo bambino mescolato con il suo durante i giorni sereni a bordo della piccola canoa. Sarebbe divenuto mare che avrebbe dato sollievo ad altre vite, sarebbe divenuto un’onda che avrebbe illuso Vera sul ritorno del papà disperso. Pensava già che la condanna emessa fosse stata più clemente, e che accarezzando quel lento svanire il suo male sarebbe evacuato lontano dall’anima…
Sì fermò a gustare tutti i momenti con respiri convinti, di quel ristoro dei sensi e la fine che avrebbe desiderato per ritornare al principio. Non si accorse che la mano della piccola non stringeva più la sua, e che il suo sussurro s’era bruscamente interrotto.

- Papà, papà, sta tornando papà! – la piccola aveva visto un piccola vela all’orizzonte e cominciò a correre verso la punta del molo. La superficie di questo era cosparso di alghe e di flutti, la piccola inciampava ma correva, correva, si rialzava e correva… scivolava, e correva per poter rivedere il papà disperso.
Lui la guardava correre forsennatamente, mentre il mare ricominciava a gonfiarsi e la marea avrebbe divorato tutto in pochi minuti sotto la sua fagocitante voluttà. Doveva salvarla e corse arrancando vistosamente, tentando di attirare l’attenzione della piccola con schiamazzi soffocati.

Passi gonfi di ferocia si mossero intanto dalla spiaggia.
- Vera! Vai via da lì! Allontanati dalla bambina brutto porco! – Un urlo diabolico giungeva, e si distinse un vecchio zoppicante con in mano un fucile che con falsa rapidità si dirigeva verso il molo, mentre caricava la sua arma, seguito da una donna in lacrime che chiamava con ardore il nome della piccola che aveva orecchie solo per il vento che doveva avvicinare a lei quella vela, nella quale cullava la speranza che ci fosse il padre.
Non s’accorse del vecchio che sopraggiungeva.
Decise che doveva correre ancora, correre verso la piccola, mentre le onde si alzavano sempre più maestose, pregustando di inghiottire la piccola preda. Corse. A passi soffocati. Ogni passo gonfiava i suoi polmoni logori, per quegli ultimi respiri che avevano un senso.

Quando fu a pochi metri da lei riuscì a chiamarla.
- Vera torna indietro è pericoloso lì – urlò lui alla bambina, che saltellava vicino alla punta del molo in prossimità del punto in cui questo rovinava nelle acque tornate maledettamente troppo furiose.

Il caricatore del fucile era posizionato e pronto a levare il suo latrato verso il molo. Pochi attimi, pochi passi, ultime voci prima del ruggito.
Lui correva. Il fucile si caricava di morte.

La bambina saltava sulle sue strette ginocchia. La chiamò con voce disperata mentre la sfuriava si gonfiava sempre di più in ogni attimo. La piccola Vera riconobbe una voce paterna che le diceva di ritornare indietro, e si girò sorridendo verso di lui, dando le spalle all’impetuoso precipitarsi delle onde affamate di terrore.
Un’onda si levò famelica investendo di spalle la piccola Vera che scivolava via strillando, e chiamava: Papà!… Mentre i suoi piccoli piedi non incontravano il freddo nero del molo, ma slittavano via verso l’acqua bramosa. Lui riuscì a raggiungerla in un balzo che avrebbe consumato tutto la vita che gli fosse rimasta, riuscì a prenderle il braccio e tirarla in salvo a sé.

Mentre dall’imboccatura del molo, la bestia ruggì.

Un unico sordo fragore, che intimorì anche le onde del mare. La pallottola perforò la sua testa, bruciando il cervello e asciugando con il calore dell’odio il sangue che dal foro infiammato non sgorgava neanche. Non ebbe il tempo di capire, di vedere, di presentarsi degnamente al suo appuntamento con il destino. In un istante si spense la coscienza.
Il tuono avrebbe consumato ogni misero desiderio di consumare quegli attimi agognati in cui aggrapparsi piano tra la vita e la morte mentre vi avrebbe voluto calarsi in quest’ultima cosciente e deliziato nel riposo della sua anima.

Dopo giorni di agonia e morte dell’anima, Vera era riuscito a condurlo su quel ponte dove si insegue la speranza, e lui quasi inconsapevole, concepì un desiderio di pace e redenzione. Pregustare la fine tra quelle onde e aggiungere il suo triste destino a quell’eterno ritorno che lo avrebbe reso infinito.
Ecco che malvagio e tetro il patibolo atteso s’era manifestato per lui, nella pena più atroce e violenta, deprivandolo dell’ultimo briciolo di vita che aveva trovato il coraggio di costruire nel suo cuore. Finì così il vano supplizio, senza coscienza e redenzione. Nell’oblio di un buco nella testa perforata con indifferenza, senza che sgorgasse via il suo sangue.

La piccola Vera gemeva terrorizzata con quella carcassa senza anima addosso. Il vecchio e la madre li raggiunsero al termine del molo. Sollevarono la piccola. La videro ansimare, con gli occhi sbarrati, non muoveva palpebre, ciglia, labbra. I suoi capelli parevano voler resistere al vento.
Pallida e smorta, la allontanarono via. Il cadavere putrido fu presto condotto nella casa sul mare. Il vecchio raccolse le travi di legno disseminate sulla sabbia e accese un fuoco cospargendo di benzina le mura decrepite, sollevando una fiamma che rendeva invisibili le stelle.

Tra le fiamme le pareti della vecchia catapecchia cedettero piano, il soffitto crollò improvvisamente sul cadavere che ardeva. Quella fu la sua tomba di odio e di fuoco.
La piccola Vera dopo qualche mese che non si muoveva più, che non parlava, che s’era trasformata in un vegetale marino, fu portata in un istituto di recupero psichiatrico. I pescatori, spaventati e costretti abbandonarono per sempre quella spiaggia.

La vita era completamente sparita. Il male, aveva compiuto il suo ciclo nell’eterno ritorno delle onde del mare.

martedì 24 maggio 2011

La casa sul mare - 4


IV
- Ciao - Irruppe una voce – mi dai la palla? – Vide dapprima una vecchia palla grigia accanto il suo piede sinistro che s’era bloccata tra questo ed il blocco di tufo sul quale era seduto. Poi scorse il volto di una bambina vestita poverella con un sorriso sincero e beffardo. Spostò la gamba cosicché questa potesse servirsi da sola, ma vide che la piccola titubava. Aveva paura, oppure era la puzza a dissuaderla? Allungò il braccio e la palla scivolò via verso la bambina.
Questa la raccolse e si volse di spalle ricominciando a correre dietro alla palla che si divertiva a scalciare maldestramente. Ridendo.

Ecco, riconobbe il suono primordiale che gli aveva infuso quella voglia di alzarsi e sentirsi riavere. Restò lì a lasciarsi catturare dal moto di quella creatura, che disordinatamente calpestava la spiaggia disseminandola di quell’incantevole viso, tanto raggiante, quanto inconsapevole.
Osservava quella farfalla spargere vita così, senza un perché, senza una meta che potesse guidarla, una mano che riuscisse ad afferrarla e portarla via con se, libera e confusa, senza fine, senza un tragitto rettilineo. Non s’interrompeva neanche per cadere, per rendersi conto d’essersi fatta male, di dover essere attenta, non avrebbe corso alcun pericolo, pareva, finchè avrebbe inseguito la sua palla. E nulla poteva intercettare quell’incomprensibile agitazione.

Ma lui, poveraccio, non era abituato all’aria ed al vento, e bastò un sospiro più sostenuto di questo per acutizzare una fitta ad un fianco, emise un sussulto e si alzò di scatto per contenere il dolore. La bambina si spaventò a quel repentino movimento. Poi ebbe quasi pietà, e gli venne incontro.
- Tu abiti lì? – chiese facendo segno alla casa sul mare. – Mio nonno e mia mamma dicono che lì ci abita una persona che prende i bambini, li rapisce, che abita in quella casa brutta e vecchia perché ce lo hanno rinchiuso i pescatori. Loro aspettano che la casa crolli. Lo conosci tu questo signore cattivo? – guardò la piccola che sorrideva mentre raccontava persino la paura con la pace nel cuore, un sorriso che avrebbe vinto il più cupo terrore.

- Si, lo conosco il signore cattivo, è dentro quella brutta casa che sta per crollare, è tanto cattivo, l’uomo più nero e triste del mondo… ma non prende i bambini degli altri papà, lui era un papà, il suo bambino gli è stato portato via dal mare, aspetta che il suo figlioletto torni da lui… E il tuo papà dov’è adesso? – Aveva quasi dimenticato l’uso della parole, formulò il suo pensiero con estrema lentezza… mentre una voce di donna chiamava da quella casa di pescatori che si eresse in un attimo di lì a poco lontano dal suo sguardo. Ergendosi anche nel suo ricordo maledetto, con tutto il livore del suo odio.

- Vera! Vera! Torna a casa è pronta la cena! Sbrigati!
- La mia mamma mi sta chiamando – Si voltò la bambina, senza accennare all’idea di volersene andare.
- Ti chiami Vera? Abiti in quella casa.
- Si, ma mia mamma non vuole che mi avvicino alla tua casa, ha paura che crolla ed io ho paura dell’uomo cattivo che ci abita dentro. – Diceva guardando instancabilmente oltre il molo, lontano, cercando un segnale che provenisse oltre l’orizzonte.
- Non torni a casa?
- No, devo aspettare il mio papà che torna con la sua barca… lo aspetto tutte le volte che ci sono le onde. Il mio papà è partito con la barca, partiva e tornava sempre, e mi dava un bacio… Ora sono tanti giorni che non torna, forse sta pescando un pescecane. La mamma dice che non torna perché sta pescando un pescecane grandissimo… - diceva allargando oltremodo le braccia - … una sera sentivo la mamma piangere, ed il nonno diceva che il mio papà se l’erano portato via le onde. Poi sento mia madre e mio nonno fare strani versi, però mia mamma piange sempre… Così quando ci sono le onde io vengo ad aspettare papà, lui tornerà quando ci sono le onde.

Cercava il suo papà, ingoiato dalle onde… Vera, dolce e tenera, innocente e inconsapevole, volteggiava sulla sabbia sporca di cenere e gabbiani morti per attendere un ritorno che non sarebbe mai giunto. Spargendo vita, attendeva chi probabilmente era morto. Ogni volta che il mare infuriava, lei veniva a reclamare suo padre.
Lui invece nella furia delle onde riconosceva il frastuono della morte. Ecco la differenza che lo separava dalla vita.

lunedì 23 maggio 2011

Stuck in the middle with you


Non so come sono capitato qui, stasera. Avevo la vaga sensazione che qualcosa fosse stata scorretta. Ho persino temuto di non reggermi bene seduto alla mia sedia.
Mi chiedo se sarò nelle condizioni di scendere incolume lungo le scale.

Starei qui ad ascoltarti per ore, riuscendo persino a lasciarti parlare senza interromperti con il mio ego smisurato che s'apposta come una volante dei carabinieri a valle di una strada in discesa.
Mi concederei solo di difendermi con una chitarra, mentre mi narri qualunque cosa sfoci dalla tua testa.
Arpeggiando un blues che non ti dia fastidio, e mi renda ancor più dolce il lasciarmi trapanare la mente dall'incisività dei tuoi occhi. Vere e proprie armi di beatificazione di massa.
Uno sguardo che demolisce la paziente opera di lucifero in questo mondo, una sorta di lavacro primordiale che impatta sulla coscienza come acida pastiglia in una fossa biologica.

Quelle tue parole che cancellano con una sola
detergente frase anni di soprusi inferti dalla pacificatoria necessità di non ignorare del tutto l'esistenza di congiunti iscritti nel miserrimo club dei possibili figuranti nel testamento.
Necessari solo come ultima spiaggia, come una pensione di reversibilità, come testimoni di un tamponamento a catena. Utili come pastorelli in un presepe inscenato ad agosto, opportuni come una pallottola nella nuca nel giorno del proprio onomastico.

Ti ascolto, e le tue domande penetrano nella mia anima come una flebo fresca e delicata dopo anni di erranza in un deserto senza escursione termica.
Mi sorridi, e mi sembra d'essermi improvvisamente lavato senza petali di rosa nel Lete, al cui confronto le terme di Caracalla assomigliano ad uno stagno radioattivo di Fukushima.

Vorrei ascoltarti per ore, mentre ogni tanto sorseggi da un calice di primitivo di quelli buoni che s'approria di tutta l'invidia di cui sono capace per la goduria di sfiorarti le labbra.
E ogni tanto ti lasci andare ad espressioni di cui ti vergogneresti se bevessi solo ossido di idrogeno, ma che ti rendono ancor più pura e presentabile al mio intelletto severo come uno sportello di orientamento al lavoro, popolato da addetti di un centro per l'impiego a cui viene imposto un inspiegabile straordinario.

Ingoieri il plettro per non doverlo perdere nel posarlo da qualche parte in evidenti condizioni di sbronza da conversazione, e ti tenderei la mano per invitarti a guardare Giove in un cielo d'estate.

Che poi tutti si chiedono del perché sia sempre Giove, e a ciascuno di questi luridi usurpatori di ossigeno pubblico, circolanti senza coscienza di classe a piede libero sul pianeta, consiglierei di sparire dalla scena del creato finché non abbiano appreso quale grande mistero si cela dietro la venuta dello Starchild.

Che altrimenti crepassero per avvelenamento da merendine infette.

Ma tu no. Lietamente verrai, come una commessa a sei zeri, come un container da 40' di voluttà, come un ordine franco destino di invidiabile grazia.

E non sarà solo il solito lapillo che incendia  l'ebbro vascello in fuga.

domenica 22 maggio 2011

La casa sul mare - 3


III
Corse accecato dal tetro presentimento. Vicino alla sedia del suo letto, un lago di sangue, e suo figlio con un buco alla gola ancora bruciato dalla pallottola, steso a terra senza vita.

Ora lui fissava quel vetro torbido, attendendo che il fragore del mare grosso gli riecheggiasse quella eco di morte che gli aveva strappato suo figlio. Perché ciò soltanto gli infliggeva quella pena da cui il suicidio lo avrebbe forse inutilmente salvato. Non cercava pace, né perdono, né altro, cercava il silenzio interiore di chi non è mai apparso a questo mondo.

Tragica fatalità, il responso della corte penale. Non era più nulla, non gli era rimasto più nulla. Nemmeno la colpa per aver lasciato che suo figlio fermasse il suo tempo a sei anni, lasciando lì inchiodata in quell’attimo tutta un’intera esistenza, tramutando i sogni in un epigrafe incisa su una lapide bianca. La pistola era stata ben conservata e nascosta, solo una stupida e tragica fatalità.

Era innocente secondo i canoni della civiltà umana, lindo, immacolato, il mondo gli consentiva di proseguire i suoi giorni come più egli gradiva, come se nulla fosse successo. Si era soltanto distrutto il suo unico motivo di vita.

La moglie andò via portandosi via con sé presente e passato, ricordi ed oggetti, lasciando che il futuro restasse a marcire solo per lui, per sempre prigioniero del fetore di morte di cui erano intrise le decrepite pareti della casa sul mare.

Qualcun altro al suo posto avrebbe pensato che un altro ridondante urlo della sua rivoltella, od un qualsiasi altro metodo di azzeramento di quei giorni inutili, sarebbe bastato per porre a compimento la deviazione che la vita aveva sancito per lui in quel giorno maledetto. Ma no, sarebbe stato troppo facile, la sentenza vera e propria non era ancora stata emanata, l’attesa prima del capestro sarebbe potuta durare ancora molto a lungo.

Depauperato della sensibilità attendeva, mite e freddo, che proseguisse quella miseria.
Mentre annegava nel suo nulla, all’istante sentì ridere, ed all’improvviso ricordò di possedere quella carcassa abbandonata dalla peluria canuta e senile, riuscendo persino a decifrare in quei suoni lontani un genere di sensazione a cui non ebbe modo di collegare un significato preciso. Credeva d’aver rimosso l’esistenza di tali versi che s’erano estinti dalla sua memoria dacché non li avrebbe più intesi sulle labbra e sulla gioia del suo bambino.
Ma qualcosa forse c’era ancora nella baia. Forse non tutto s’era riempito di morte.

Quasi senza volersi separare dalla seggiola carceriera che pativa la sua presenza addosso, si trascinò via in accenni di quelli che rimembrava si chiamassero passi. Si sentiva, si sentiva respirare, sentiva la presenza del suo corpo, dei suoi organi, del cuore che pompava il sangue che percepiva scorrere attraverso il suo corpo. Scoprì d’aver fame e sete, da quanto tempo non aveva inserito alcunché nei cunicoli dell’addome…

Scoprì la puzza che lo circondava, capì cosa fosse il sentore del disgusto, ma non s’accorgeva che molto emanava da lui stesso.
Aprì la porta della casa sul mare, alla ricerca di quel suono improvviso che lo aveva destato. Scoprì un mare che s’infuriava ai piedi di un cielo torvo con nubi dai contorni squamosi che accludevano ampie porzioni d’azzurro. Tutto intorno c’erano ammassi di travi in legno e carboni spenti di un fuoco che aveva arso lì vicino. Immerse i suoi piedi nella cenere e sollevando polvere e sabbia, scalciò via un passero morto che si consumava tra i carboni.

Osservò la presenza di un blocco di tufo nel silenzio interrotto dal mare e dai gabbiani. Il suo tremore nell’inetto cammino non gli permetteva di indugiare a lungo in piedi. Si diresse verso la pietra sabbiosa per appoggiarsi a scrutare quello scenario che gli si manifestava dinanzi. Le gambe subivano nel piegarsi uno strano turgore, una tensione rocciosa penetrava dalle caviglie per cementargli le membra ogni volta che un’onda si scagliava violenta contro la riva esacerbando il fragore del suo impeto.

C’era un’eco in quell’infrangersi che ancora lo atterriva, come unico contatto con l’esistenza, sentiva quei rigetti del mare come una frusta arroventata che impattava inferocita sulla sua coscienza… sentì qualcosa toccare il suo piede.
Eccolo, il patibolo forse si stava approssimando.

sabato 21 maggio 2011

La casa sul mare - 2


II
Era lì che un tempo sua moglie e suo figlio d’estate lo attendevano a pranzo.
In quello stesso tempo remoto, lui attendeva con ansia che il suo turno mattutino da guardia giurata finisse per raggiungere quell’ameno tugurio, e riabbracciare suo figlio impaziente di cavalcare le onde.
Uno sporco ma accogliente scantinato del paradiso, infestato da sorci e immondizia erano quella casa e quella spiaggia degradata. Un paradiso vituperato e scalfito dal risentimento e dall’invidia degli altri abitanti di quel litorale.

Più volte i vetri della casa erano stati ridotti in frantumi, e minacce più o meno celate pendevano su quella casetta, costruita troppo a ridosso della battigia da suo padre tanti anni prima.
Suo padre, anch’egli era pescatore, come tutti gli abitanti della zona. Si vociferava che presto sarebbero giunte le ruspe a radere al suolo quell’insediamento di gente semplice che si preoccupava soltanto di perseverare la pacata ed indifferente esistenza, sempre identica nel tempo.

L’idea di un villaggio turistico avrebbe rimosso quella speranza di conservazione. Ruderi decadenti e irregolari, abusivi, patrimonio inalienabile di gente che viveva del mare. Mietuti come fieno infetto dalle orde e dalle promesse del progresso.
Tutte destinate al macero tranne quella piccola casa sul mare, troppo antica, primogenita di quella triste prole muraria, diritto acquisito reso intoccabile dalla sua prolungata inutilità, e dalla sua posizione troppo poco appetibile all’avvento del nuovo e del moderno.
Tanto bastava a disseminare odio verso quell’intonaco divorato dai muschi e dalla brezza. E verso le anime che da quel giaciglio malandato traevano un mite gusto dell’estate.

Quel tragico pomeriggio di fine agosto che restava inciso tra le sue palpebre perse nel vuoto, il mare pareva indisposto a coccolare la voglia di vivere del suo bambino, e mentre egli riponeva piano la camicia della sua uniforme sulla sedia accanto al letto, il bambino piangeva. Via via più forte.

La canoa era arenata a qualche metro e da solo non sarebbe riuscito a governarla tra le onde. Il mare era agitato, ma la vita lo era di più, doveva cavalcare quella furia la sua irrefrenabile infanzia, così avrebbe avuto un senso. Quel giorno si sarebbe spento per suo figlio se egli avrebbe mancato all’appuntamento col mare, e l’infanzia avrebbe ceduto ancora una volta il passo al diventar grandi, attraverso una triste rinuncia.
Piangeva, strillava e non conosceva ragione. Non aveva mai picchiato suo figlio, era sempre stato buono il suo piccolo, non ce n’era bisogno. Ma sua moglie mal sopportava quegli strilli isterici, soprattutto se immersi tra quell’odiata noia di un deserto di civiltà nel quale il marito la costringeva ogni estate. Il mare era più oscuro quel giorno e la canoa non sarebbe rimasta a lungo in superficie.

Avrebbe ribadito il suo no, era troppo pericoloso. Ma il piccolo non s’arrendeva, doveva solcare le onde con il padre con la loro canoa. Piangeva, strillava, imprecava.
Iniziarono a levarsi urla dai caseggiati vicini, i pescatori non tolleravano quel fracasso, nelle poche ore che potevano concedersi il sonno prima di affidare vite e speranze alla mercè delle correnti marine. Intimavano al padre di zittire quegli strilli sempre più rochi.
Cominciarono a piovere insulti, e si stava innescando l’ennesima lite. Sotto gli occhi straniti e annoiati della moglie.

Una scena già viste mille volte, che si sarebbe risolta con il solito scambio di insulti. Il vecchio pazzo della casetta contigua alla casa sul mare, stavolta però pareva fin troppo nervoso perché sparò persino due colpi di fucile in aria.
A quel minaccioso incedere del vecchio confinante indiavolato, ad egli bastò guardare il viso atterrito e spaventato del suo piccolo prosciugato di ogni lacrima per il terrore che lo aveva scosso per gli spari, per riscoprire il sapore della rabbia. S’avventò contro quel vecchio dissennato armato di fucile.

Non s’accorse che lo sguardo atterrito del piccolo spaventato era diventato lo sguardo dell’odio che segue alla paura.
Era già qualche decina di metri lontano dalla casa sul mare, pronto a tutto per porre fine a quella spropositata minaccia, quando alle sue spalle, udì l’urlo fedele e lacerante della sua pistola d’ordinanza.

Un istante straziato, seguito ad attimi di tragico silenzio.
Poi le urla disperate di sua moglie che lo chiamavano.