martedì 28 aprile 2009

Senza trolley

Si discuteva di argomenti fighi.

Così sosteneva una persona che mi era apparsa inspiegabilmente vicina ed affine. Raramente ti capita davanti qualcuno che è capace di darti risposte a pensieri ancora inespressi.
Si stava facendo tardi, e si stava deragliando nei notturni sproloqui gonfiati dagli sbadigli, da quelle fauci spalancate dalla consapevolezza che non avrei dormito.

Con tre ore di sonn
o esposte sulle ciglia sfaticate, vengo richiamato alla vita dai passi disponibili e rassegnati di mio padre.
Piove. Bestemmio.
La pioggia si aggiunge ai tanti mugugni che sento vibrare nell'aria che separa il cranio di mio padre dal mio. Magari lui non stava pensando ad un cazzo niente, se non all'alzataccia che gli ho imposto. Magari avverto nella sua bocca semichiusa mugugni che avrei benissimo espresso da parte mia.
Me ne fotto, e procedo.
E lui mi guarda, seduto accanto a me, per nulla distratto dall'affanno con cui le spazzole dei tergicristalli stentano a drenare la sconcertante bizzaria del clima.
Un punto interrogativo promana dai suoi occhi. Non parla per via della tensione che giorno dopo giorno ho sciaguratamente interposto tra me e i miei fortuiti congiunti.

Me lo chiedeva con sospettoso ritegno, con delicato fastidio: "Ma che cazzo ci vai a fare a Bologna ogni mese?"
E lo servo subito, senza che il suo dubbio avesse avuto il tempo di tradursi in un quesito. "Vado a trovare un caro amico."
Si è sentito raccontare questa cazzata ogni volta. Troppe volte, ed ho l'impressione che abbia finto di credermi per pietà. La qual cosa mi irrita parecchio.

Odio le domande proprio perché non vorrei mai trovarmi esposto al rischio di dover mentire.
Tuttavia, riprendendo il discorso figo che avevo elaborato qualche ora prima: esploro, come sempre, la natura dei miei atti. So che in una partita con la verità il pareggio sono in grado di poterlo strappare, occorre un concetto che sembrerebbe improprio se espresso da me: l'umiltà.

Non è a mio padre che racconto cazzate, e le sue espressioni non convinte sono solo uno specchio. Tuttavia, fatti i dovuti conti con la verità, non mi impressiono e mi addentro nei miei propositi.
Viaggiare con un'unica borsetta, senza la necessità di recarsi dietro la carta igienica, è edificante. Eppure la mia soddisfazione di essere riuscito a concentrare l'essenziale in un'unica borsa viene aggredita dalla sirena del controllo di sicurezza che, ovviamente, squilla nella scansione del mio irrisorio bagaglio a mano.
Una manina rivestita dal guanto in lattice si intrufola negli stretti perimetri dei miei beni e servizi, alla ricerca dell'oggetto incriminato. Dopo pochi minuti viene estratto il reperto proibito: il bagnoschiuma.
Catalogato come sostanza contra legem, viene gettato via nella spazzatura. Un atto tale da indurmi a eversivi intenti avverso l'agente.
Mi placo.

Parto. Turbolenze. Un recondito neurone mi riporta in auge la mia sofferenza di vertigine. Guardo davanti a me. Dopotutto è come se fossi nel solito autobus lungo la statale 100, quella delle puttane. Solo che non devo guardarmi intorno. Anzi, a ben vedere le oscillazioni del mezzo sembrano persino inferiori alle danze del pullman.
Arrivo. Riaccendendo il telefono leggo un numero tale di messaggi che è  apparso subito facile capire quanto sarebbe stato impossibile trascorrere dei giorni in assoluta spensieratezza e riposo.

Ripenso ai miei discorsi fighi. Ho voglia di chiamare la mia cara figa interlocutrice e rispondere alla domanda con la quale ci siamo salutati. Non una vacanza, non un week-end, ma una full immersion nella più sublime delle rotture di palle.

Il mio ospite mi attende fedele, ammaestrato, devoto. Cammina veloce, saltella. Capisco dalla sua camminata il perché di tante cose, ma proprio non mi riesce di condannarlo, per due ragioni: primo, nella sua follia costui è una persona autentica; secondo, vota nel mio collegio.

Impongo una doverosa pregiudiziale: che le nostre conversaz
ioni in questi giorni vertano su tutto, tranne che sui legami per via dei quali abbiamo intersecato i nostri destini.
Ancora una volta mi chiedo a chi davvero è rivolta la mia esortazione. Perché sono io stesso a disobbedirmi, non nelle parole, ma nei pensieri, e nelle opere e omissioni.

Quelle stradine tutte uguali e quei portici gridano di aneddoti, di scazzi, di gestualità affidate all'aere. Nel silenzio antelucano, una via riecheggia ancora della cantilena incisa dalle rotelle del mio trolley celeste, fedele compagno di tante prese in culo.
Soprattutto in quei vicoli cessi tante volte percorsi, più di quanto non si sappia.

Il resto è stato una continua lotta tra me, la mia miopia e la ristrettezza del mio campo visivo. Nonché un delizioso compendio etologico sulla capacità umana di fare letteralmente a pezzi la concretezza e la verità.

Un episodio che mi ha fatto tenerezza.
La minuta biondina si appresta a rivolgermi la parola con le labbra timide. Praticante avvocato, si rivolge al mio compare:

- Sei un cafone a non presentarmi il tuo amico.- Le sorrido, e tolgo il mio ospite da ogni imbarazzo appropinquandomi verso costei.

- Piacere, Silvia. - mi risponde. Mi viene da ridere, come al solito.

Faceva caldo al parco. Il giorno prima io ed il mio ospite disquisivamo sulle ingiustizie della vita seduti alla panchina, proprio lì dove siamo fermi a discutere  dei delitti e delle pene, con la praticante avvocatessa . Lui, lagnandosi, si riferiva alla sorte beffarda che lo ha privato del suo affetto principale. Io alla sciagura di non poter affondare i miei incisivi nelle torte sacher della pasticceria Castiglione.

La avvocatessa Silvia parlava, mentre io, senza ascoltarla, sfidavo la mia miopia ed il sole invasivo.

"...Anche un bacio estorto è punito come una violenza sessuale."

All'udire quelle parole, nell'incrudelità generale, scoppiai in una fragorosa risata. Pensavo al doppio volto della fessaggine.
Una menzogna cubica avrebbe fatto di una persona, un fuorilegge.

Un buco nel culo bello largo, con la ferma e responsabile capacità di confrontarsi con la verità, avrebbe fatto onore.

A distanze siderali, che deridono le velleità geografiche, gli individui esercitano, più o meno intensamente, la loro personale lotta.
Perché lottano?

Perché sono fessi.

lunedì 27 aprile 2009

Ricordandomi di voi

Era il 1931 e John Maynard Keynes usava, scrivendo per la Royal Economic Society, queste parole per dipingere il genere umano:



"Non so se ricordate il professore di Sylvie e Bruno:

- È solo il sarto, signore, col suo piccolo conto - disse una vocina da dietro la porta.
- Ecco, vedete, lo sistemo subito, - disse il professore ai bambini - ci metto un minuto. E quest'anno quanto sarebbe, amico mio? - Nel frattempo il sarto era entrato nella stanza.
- Ecco, il doppio dell'anno scorso, che era il doppio dell'anno prima - disse il sarto un po' confuso. - Insomma penso che sia ora di pagare. Sarebbero duemila sterline, ecco.

- Oh, ma cosa volete che sia - disse il professore come se davvero non gli importasse, e anzi toccandosi la tasca come se fosse solito portare quella somma con sé. - Ma non preferite aspettare un altro annetto, e arrivare a quattromila? Pensate come sarete ricco! Quasi come un re!

- Come un re magari no, però di sicuro sarebbero un bel po' di soldi. Quasi quasi aspetto.

- Ma certo! - disse il professore. - Questo si chiama buon senso! Allora arrivederci, amico mio!

- Ma le vedrà mai, quelle quattromila? - domandò Sylvie non appena la porta si chiuse dietro il creditore.
- Mai bambina mia, - rispose il professore con una certa enfasi - continuerà a raddoppiare fino al giorno della sua morte. Sai vale sempre la pena di aspettare ancora un anno, se poi intaschi il doppio. "

Se qualcuno volesse dare una spiegazione antropologica alla crisi finanziaria, penso che questo brano possa bastare.

giovedì 23 aprile 2009

Indisponente

Sai, Alcor, pensavo ad una cosa.
Il tuo gruppo sanguigno è 0 positivo. Ahi! Mi fa male il gomito.
Sei un donatore universale. Tu, donatore universale. Tu. Capisci?


Questa è la prova dell'infinito senso dell'umorismo che ha avuto l'artefice del creato.

domenica 19 aprile 2009

Invasioni barbariche

- Alcor, rilassati, lasciati andare... non pensare.

- Vattene.

- La devi smettere di pensare troppo.

- No. Devo smettere di discutere con gli altri sul fatto che penso.

mercoledì 15 aprile 2009

Lesson N

Mi ficcano in casini assurdi. Gli altri. Perché se fosse stato per me questa gente non sarebbe mai esistita. Così come un passante che ti incrocia per strada, ti pesta il piede e chiede scusa, è come se morisse perché non tornerà più nella tua vita; così le persone di cui ignori le vicissitudini è come se non fossero mai nate.

Per via di oscure ed indecifrabili manovre del fato invece esse irrompono nei delicati spigoli di un equilibrio già ontologicamente dissestato e si attaccano al tuo pane quotidiano come i koala ai rami del baobab.
Cosicché quell'asilo che durante la debita azzurra età mi guardai bene dal frequentare, ritenendolo uno stucchevole spreco di tempo, mi ritrovo a doverlo sperimentare oggi.

Se non scrivo più con ritmi forsennati è perché ho cominciato a masticare un po' di ritrosia nello sventolare i cavoli miei. Esplosiva miscela: un periodo di scarsa propensione all'autoironia, mancanza di tempo, tastiera del pc affetta da "tasteoporosi", batteria del pc affetta da litio-diabete, cronica assenza di novità che valga la pena di ostentare in prosa orripilante per i cultori della fraseologia fastfood.
Carenza di stimoli dovuta alla scomparsa di altri decenti prosatori (-trici, per la verità) che arricchivano la dialettica della scrittura, e che ora prediligono il deprimente svilimento indotto dai social network sul potenziale creativo della mente, essiccando quelle piacevoli doti.

Leggo poco e scrivo poco, perché non vi è più reciprocità.
Ed anche perché pago tuttora un deprecabile dazio alla condizione di essere letto, laddove non mi riesce di essere più dissacrante e irriverente su episodi dalle tinte cosmicomiche.
Così come mi si è incrinata la voglia di ridere e sbeffeggiare dopo la tragedia del terremoto in Abruzzo.

Però il processo di autoanalisi continua senza pitstop, rifornimento e cambio gomme. E facciamo passi da gigante. In questo periodo ho appreso diverse cose che elenco:

Quando mi incazzo ho difficoltà a percepire le mutazioni del mondo intorno. Fatto sta che mi ritrovo a urlare al telefono sotto un acquazzone della malora, perché sotto l'unico riparo possibile all'esterno del ristorante in cui mi trovavo, c'era gente che fumava e che avrebbe intessuto con me una bionivoca corrispondenza di cacamento di cazzo.
Cosicchè, guidato da un vigile istinto di autoconservazione, ho trovato riparo sotto una pensilina di canne di bambù utili come se si volesse riempire un secchio con un colino.

Quando mi incazzo è difficile capire perché mi sto incazzando, non lo so nemmeno io. Ma mi capita talmente raramente che pur essendo difficile ricavarne le motivazioni, state certi che ci sono. Non si sa quali, ma ci sono.

Quando mi incazzo non gesticolo. Perché non sto recitando, ma sto consumando litri di bile.

Ho imparato che le invasioni degli argini che si interpongono tra il mio arroccamento breve (lessico da scacchi appreso da poche ore) e tutto il resto, mi crea scompensi intestinali accelerando in maniera anomala lo smaltimento dei reflui acidi lungo il cavo orale.

Ho imparato che coloro che provano nostalgia per me possono benissimo munirsi di tamagotchi. Eppure, sono certo, con la mania di voler dare tutto per scontato e dovuto, pure un coniglio elettronico si cacherebbe il cazzo.

Adirarmi e trattar male gli altri è un ombroso atto di amore che è pure esagerato.

Ho capito che è inutile che mi ostino a voler distrarmi a destra e a sinistra alla ricerca di buchi con la carne di femmina intorno; perché quel momento di estasi non ce la fa a compensare il baratro d'angoscia che mi si svuota sotto i piedi appena esaurito il picco. Quando desideresti farti gli impacchi di benzene per levar via un odore straniero sulla pelle, e cancellare le impronte di carezze che non corrispondono alla mano che è stata capace di spalmare la vita sul tuo corpo.

Imparo. Ogni volta che imparo è solo una voce nuova che si aggiunge al novero delle mie repulsioni.

Nella meditabonda nullafacenza ho capito cosa ho sbagliato. Facevo un giochino scemo: dovevo trovare cinque eroi da cartone animato in cui il mio fanciullino si sarebbe dovuto riconoscere. Ma quali? Al terzo eroe ero in crisi.
Non ne conoscevo altri.

Ecco dove ho sbagliato, all'epoca dei primi peli sull'inguine avrei dovuto farmi gli occhi su Zora la Vampira, non sui sonetti di Guido Guinizzelli.
Di certo adesso sarei capace di mandare a fanculo la gente senza nemmeno quel retrogusto di interrogativi propri di chi ha più di un neurone sul lato oscuro della luna.
E non sentirei i cazzotti in testa mentre mi infilo tra cosce sconosciute, in mezzo alle quali è facile sentirsi orfani e lontani da casa.

E poiché io credo sempre di poter plasmare le cose come voglio, sto scaricando l'intera serie di Daitarn III.
Un mix oscuro di pietà e giustizia permeava i meganoidi di quella serie, così come il conflitto tra
Banjo ed il meganoide balbuziente DonZaucker (che conteneva il cervello di suo padre) aveva un non so che di kafkiano.
Che se avessi letto Zora la Vampira non avrei potuto cogliere. Avrei amato senza cognizione, più spensierato ma più scellerato, come un meganoide e non come un uomo.





Questa canzone me l'hanno messa in testa stasera, anche se non c'entra una mazza con quello che ho scritto, o forse no...

lunedì 13 aprile 2009

mercoledì 8 aprile 2009

A stento

La cosa più degna di nota che ho fatto negli ultimi mesi è stata leggere Keynes sul lungomare di Bari, sotto il sole delle 12.45, ad inalare vapori di eau de mucillaggine.

Una nuova tag è d'obbligo.

sabato 4 aprile 2009

Adoremus





Ho sempre adorato coloro che mantengono una convinzione di serietà e sobrietà mentre raccontano stronzate.
Ho adorato anche coloro che riescono a prendersi per il culo da soli senza accorgersene.

Costui è un grande.

giovedì 2 aprile 2009

Commissioni e norme transitorie

- Alcor, ma tu...

- Scusa se ti interrompo. Ma tu sei fidanzata?

- No...

- ... Azz!

- ... Perchè me lo chiedi?

- Perchè nutrivo la segreta speranza che ci fosse qualcuno legittimato dal diritto naturale a sopportare questa immane rottura di palle al posto mio.

- Cafone.

- Zocc'l.

mercoledì 1 aprile 2009

Le luci della città

L'ultima volta che ho indossato il pigiama alle 20.30 ora illegale, avevo 8 anni. Avevo trascorso il pomeriggio a giocare a nascondino in un territorio vasto quanto un intero comparto di Piano Regolatore; l'area di verde pubblico con pineta era un rifugio sicuro per non essere scovato, ed il gioco lo prendevo talmente sul serio da rotolarmi sull'erba madida e nel fango, pur di scamparmela.
Peccato che anziché rotolarmi con gli anfibi e la mimetica, ero vestito come si conviene ad un ragazzino che raccontava ai suoi di recarsi devotamente alla parrocchia.
Non avevo ancora ben chiaro, nell'età dell'incoscienza, il trade off tra la vittoria a nascondino e le percosse paterne che mi attendevano precise, senza errabondi imprevisti, nel guadagnare l'uscio di casa con gli abiti lerci come una balla di fieno trainata da buoi con la diarrea.

Era il novembre palloso, ed io solevo così menare il giorno.
Fanculo ai flashback.

Compresi la necessità di asportare l'austerità e l'impegno al di fuori dai ludici meccanismi vitali, quando, quella sera, sacrificai in nome di quella gogliardica competizione tra scalmanati, un paio di bellissimi stivaletti di pelle di camoscio, chiari, con appena due di giorni di vita.
Fui sollevato di forza dagli avambracci pelosi di mio padre, trasportato nei pressi della vasca da bagno, denudato, e utilizzato come cavia per sperimentare il principio di Archimede, sviluppando l'attitudine all'apnea.
Ma quello era niente se paragonato al rito dell'asciugatura dei capelli.
Con il beccuccio dell'asciugacapelli che veniva fatto strisciare come  una rovente  aspirapolvere  ai raggi UVA sul mio cuoio capelluto, per garantire un'arsura tale da carbonizzare il cuscino nottetempo.
Avevo la classica riga a lato, propria di ogni bravo ragazzo taciturno.
Per questo Raffaele Fitto mi sta ampiamente sui maroni. Mica perché fa inviare gli ispettori di Angelino Alfano (che assomiglia al pupazzetto del castoro mentadent che mi fu regalato dal dentista quella prima volta che osarono profanarmi la bocca) nel tribunale presso il quale procede l'inchiesta sulle sue tangenti.

Giocavo con la forbice e mi ritoccavo la curvatura delle unghia delle dita dei piedi.
Quelli sì che erano bei tempi. Ed ogni cazzata è buona per ricordarli.
Meglio cogliere un piccolo insignificante gesto di una normale giornata e utilizzarlo come ponte verso un ricordo lieto e sorridente, che associarvi gli stucchevoli rimandi che ingiungono quando le briglie sono sciolte.

Devo ammettere che, da quando ho lasciato la ricerca, i caffè del pomeriggio hanno un sapore più piacevole, perchè alleggeriti dal fardello del senso di colpa.
Ancora meglio se penso a quel piccolo plico che giace sulla mensola della libreria; contiene un passaporto e due biglietti. Perché purtroppo è previsto il ritorno.
Mi ha divertito leggere un dispaccio inviatomi da un caro amico che si sta adoperando a trovarmi un giaciglio là dove andrò. Ha attivato i suoi benigni canali religiosi, e nella mail che ha inviato ai suoi confratelli, egli ha scritto: "non è un credente, ma è un bravo ragazzo".
Mi dispiace davvero di offrire questa tediosa immagine di me.

Altro lato comico è la incalzante insofferenza del genitore che si impegna a contrassegnare ogni ora con una sciocca domanda circa la sorte che mi attende dall'altra parte dell'oceano.
Ho comprato un'armonica diatonica, e credo di non abbisognare di altro.

Potrei, ad esempio, vagabondare. Come il tramp!
E nella mia erranza, imbattermi ad un angolino della metropoli con una persona di quelle che non ti accorgi che esistono. Perché le persone giacciono in questa specie di guscio che le ignora. Invisibile.

Quell'angolino mi pare d'averlo già visto in un pomeriggio della primavera dello scorso anno. Stavo da solo in un posto dove non capivo un accidenti di quello che la gente diceva con quella R moscia.
Vabbe' che di muretti bianchi nel mondo ce ne sono un bordello. Ma questa persona?
Potrei darle un nome francese, ma comincio ad averne le palle rigonfie al punto da farmi indurire le cisti di 'sti nomi.

Toh, ma è cieca! Provo a toccarla, a sfiorarla, ma lei non riconosce la direzione delle mie mani. Ne sente il calore, forse, altrimenti oltre ad essere cieca è pure 'na cretina. Vende dei fiori, ma più che altro, mendica.
Mi viene in mente di invitarla ad un concerto. Almeno sente qualosa, visto che sugli occhi non facciamo affidamento.
La recidività danza senza sospetto tra il peccato e la virtù.
Disegno il giudizio universale che mi garba, a seconda del piacere che accarezzo; che mi potrebbe fluire ovunque al pensiero di una notte trascorsa con le mie dita intrecciate alla sua mano. Che quella mano è il ponte tra la sua cecità, il suo silenzio, e questo rumore cacacazzo che fa la polveriera della mia coscienza.

La invito, sì. Sono un po' impacciato per la verità.
Perché
non dormo, io ho gli occhi aperti... Guardo fuori e guardo intorno. Com'è gonfia la strada di polvere e vento nel viale del ritorno...

Lei non c'ha un quattrino. Ha un mazzo di garofani chiari e margherite profumate. Non ha nemmeno il tempo per venire al concerto, c'ha da fare. Così dice. Del resto, gli impegni sono impegni.

Probabilmente deve dormire tutto il giorno. Ed è giusto, vivere stanca, lo diceva persino Pavese: arriva un giorno in cui si accumula talmente tanta fatica... ed è preferibile riposarsi tutto il giorno.
Non insisterò, volterò l'angolo dopo averla sfiorata, e me ne andrò.

Io poi combino le mie autonome cazzate quotidiane. Tipo andarmi ad ubriacare qua e là quando capita, e a fare i conti simpaticamente con la volubilità.
Però sarà la sfiga, ma io in questa cieca venditrice di fiori mi ci imbatto.
Che poi io lo faccio un po' capitare di passare per quell'angolino. Magari mi invento qualche verosimile ragione che mi conduce, guarda caso, a dover passar di là.

La venditrice di fiori è cieca. Le chiedo di accompagnarla a casa, e lei si mette sottobraccio. Vorrei abbracciarla, ma forse oso troppo. Si sgancia.

Vabbuò è cieca, c'aggia fa? Confonde le persone perché nate a pochi chilometri di distanza, ma forse confonde pure se stessa e le consone reazioni. Boh.
Però vale la pena farsi riempire di pugni, anche solo per celebrare un temporaneo fanculo alle cui spalle aggrapparsi.
La scena del pugile è bellissima.

Come finisce? Io creperò di caldo.
Al tramp finisce così: