venerdì 24 luglio 2009

It's not because of heaven

Il giorno più bello, la pioggia non dà tregua.
Immerso in consuete paludi di letture e richiami di parentali comodità. In questa laguna scrostano il terriccio dell'inquietudine la rabbia e la noia del non lasciarsi completamente rapire, attendendo che le goccie che fendono le orecchie siano solo avanzi di piante o di grondaie.

La colpa non è del cielo.

Sembra davvero che i posti siano tutti occupati in questo scriteriato tragitto. E stare in piedi per tutta la durata del viaggio è provante. Soprattutto allorché sembra impossibile determinare il momento dell'approdo.
La colpa non è del cielo. Tutto è qua dentro, pronto a nascondersi dietro le maschere che il mondo assume davanti ai miei occhi tutte le volte che gli appendo una faccia diversa.

E allora anche se piove, non baderanno a me gli innumerevoli ebrei che popolano questo quartiere, la strada chiama.
Non per fare il visitatore del cazzo. Non per fecondare il pavimento della vita con la prestanza dei miei passi, non per accidentare incontri.

Non abbisogno di nulla. Ci sarebbe necessità soltanto di qualche minuscolo correttivo estetico: qualche lampione in più a Clark St.,  un po' di sostanza al caffé, meno odore di onion per strada.

La notte mi rincorre. Eppure non sono io a temere improbabili viottoli che scavano il buio verso il Brooklyn Promenade. Dicono sia stato il punto più affollato del mondo, Park Slope, uno dei più bei  quartieri del mondo, suggeriscono gli opuscoli.

Una donna orientale cammina svelta in ginnico vestiario. Mi guarda e accelera i suoi passi degni di un bonsai strisciante. Capisco di non dover temere mai nulla. E benedico la lunga barba.

La colpa non sarà mai di nessun fattore animato o inanimato, se la vita spesso s'arresta in embolia.
Fumo le mie marlboro smooth per migliorare la qualità del mio brusco respiro.
Fotografo il nulla che è immenso a me innanzi.


E l'East River è una lastra di marmo rigata da pompe, battelli, riflessi di quei colossi d'acciaio e luci.

C'è tutto qui, un cerchio che parte e si arresta all'origine della mia solitudine.

Patetica è ogni voce che tenta di riafferrarmi di là. Qualsiasi zampa protesa a volermi dare una mano.
Su ogni luce appendo una malriposta stronzata, e pontifico il silenzio.

Non una parola. Non un risentimento. Neanche l'ancestrale condizione di provare un qualsivoglia bisogno.
Un nulla puro che non contempla la compagnia degli avventori temporanei che incespicano nella mia vita.
Non il bel culetto francese, non il scientifico criterio del "cazzo di cane" con cui ho speso i primi giorni.

Non una  carrellata di posti, ma un pozzo di vita da espugnare. Il tempo passa rapido perchè ogni giorno è un guadagno, non un improduttivo pareggio.
Vinco anche tutte le volte che l'animo si contorce.

Lontano dovunque io possa essere. Con la mia bisaccia in pelle nera, la mia macchina fotografica.
La mia musica è il blues che quel ragazzo suona con la sua acustica nella subway della 9th St.

Riconosco i miei occhi.

Recano dentro un po' di tutti quei volti che li hanno vessati, e che  adesso conduco con me.

La mia sigaretta e null'altro. Ritornato randagio, con la puzza della strada.
E sono felice.

Questa foto è opera mia.

4 commenti:

  1. secondo me, arriva un momento in cui, tutto questo silenzio scoppia in faccia e nella pancia. Muto ma esplode ... e sarà un nuovo viaggio.

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  2. il mio viaggio più interessante sarà quando mi fermerò.

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  3. notevole.

    la foto, dico

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