venerdì 30 maggio 2008

Una funzione in R.: L'analista - ch.1



Io sono la dottoressa di cui in questa novella talvolta si parla. Chi di psico-analisi s'intende, sa dove piazzare quello che il mio paziente ogni tanto mi dedica, nonostante forse meriterei di più da quell'ingrato.
Però la professionalità e la sincerità sono tutto.


Di psico-analisi non parlerò perché qui entro se ne parla già a sufficienza.


Il mio paziente, R., venne qui in un pomeriggio confuso di fine maggio. Parlargli mi ha dato dei risultati insperati, che sarebbero stati maggiori se egli sul più bello non si fosse sottratto alla cura truffandomi del frutto della mia lunga e paziente analisi di queste memorie.
Le pubblico per vendetta e spero gli dispiaccia. Sembrava tanto curioso di se stesso! Di trasformare quella sua inetta vita in un'opera letteraria che guardasse  sempre dentro e poco fuori. 
Se sapesse quante sorprese potrebbero risultargli dal commento delle tante cose ch'egli ha qui accumulate!...
dottoressa B.

Cominciamo subito allora, signor R.?Sì, aiutami a capire chi diavolo sono e che cazzo voglio... Del resto io sono sempre sincero, altrimenti non sarei tanto spesso infelice. Il guaio è che io reagisco malissimo a queste esperienze...

Ma perché?

È il dualismo persona/personaggio... a quest'ultimo si può voler bene, è facile accettarlo come bizzarro. Voi amate Amleto? È affascinante, ma ci vivreste insieme? Dio vi tremano già le gambe... Quando il personaggio lo si adopera come maschera e si presuppone che esso sia benvoluto come una parte limitata di sè, ci si trincera alle spalle. Nell'incertezza e nella tensione di un evento ci si rifugia in ciò che si pensa essere più apparentemente vincente, pur sapendo che ogni personaggio è una schifezza al di fuori delle appropriate pagine. È la persona vera che deve venir fuori, ma emerge solo un ritratto contaminato... praticamente esce fuori un perfetto coglione.
Va bene su, iniziamo, ti garantisco una trasparenza cristallina.

Ne sono convinta. Comincia a parlare di LEI senza fermarti, ma senza fare letteratura per piacere.È bella. Molto. Direi che è perfetta. Se cambiasse di un solo grammo forse la odierei... Mi piace come osserva le cose. Come sorride quando guarda e non ha niente da dire. È attenta a tutti i particolari, non le sfugge niente, è peggio di me. È carismatica, trascina ogni cosa, ha un passo fiero con cui sembra mantenere il mondo sotto controllo. Sembra che lei stia ferma su un tapis roulant, e che tutto scivoli via ai suoi piedi. E poi, riesce a farmi sentire importante... e poi...

E tu, invece? Come ti senti con lei? Sapresti definire qualche tuo stato d'animo?Mi sento, riconosciuto... in tutto. Ma nel senso più tenue del termine. Lei mi capisce subito, è come se vivesse in me...

Però tu non ti senti vivere in lei, vero?
No. Qualche volta potrei aver sentito qualcosa che ci è arrivato molto vicino, e mi ha reso felice. Non vedo come lei potrebbe, del resto, per quale ragione...

Accetteresti di tenere chiusi gli occhi e la bocca e farti guidare da lei?Sì.

Come con tua mamma? Bella e intelligente, tua mamma lo è di sicuro, ma...Mia madre...
Mia madre mi adora, mia madre piange per me, sta male per me... Mia madre mi ha avuto quando era ancora una bambina cresciuta nella bambagia e che della vita non sapeva nulla...

Ma...

...è cresciuta insieme a me... e nessuna mai mi amerà come mia madre, di questo ne sono certo, ergo nessuna mi guiderà mai come lei.

È bello essere il centro del mondo di qualcun altro, questo ci distoglie dagli affanni del nostro mondo ma dopo un po' l'adorazione viene a noia. Non puoi entrare davvero in contatto con qualcuno che si inchina, lo scambio è solo tra pari.

L'amore di mia madre non è corrisposto da me alla stessa maniera. Le voglio bene perché è mia madre, altrimenti... Ma l'amore non basta mai...

Non basta, se non a chi ama.Non lo so, per me l'amore deve essere talmente puro da non avere una causa scatenante.

È giusto. L'amore è una cosa che o scatta o non scatta.Ascolta, ieri pensavo una cosa mentre correvo. Me la faceva pensare una parola che qualcuno utilizza e che appartiene molto anche al mio lessico esistenziale. "Egoismo". Io lo sono, almeno mi ci accusano in continuazione, ed anche chi utilizza la parola sostiene di esserlo. Probabilmente lo siamo tutti. Ma l'amore cos'è davanti all'egoismo? Come si fa ad accettare una persona in sè se si è profondamente egoisti? Come si fa a far resistere il proprio ego con l'amore? È come se amando, però, il proprio egoismo si espande... coinvolga...

Bingo! Se ami, non hai neanche il tempo di porti questi quesiti e di fare dei calcoli. Perché il sommo bene dell'altro coincide col tuo. Si sta insieme...

...esatto...

...e ci si vampirizza a vicenda....l'amore è quel punto nell'infinito profondo dove le rette parallele di due egoismi si incontrano senza nemmeno rendersene conto... altruismo ed egoismo non esistono più lassù... dare e conservare, rapire e lasciarsi scappare, diventano tutti la stessa cosa...

... e quello che fai per te, lo fai per lei...... senza cosciente distinzione alcuna...

...e quello che fai per lei è fatto per te......che cosa perfetta e sublime deve essere... senza dubbi, senza incertezze, io non l'ho mai vissuta. Per questo forse a pensarci mi fa un po' paura...

Perché per te il controllo è tutto... è l'abbandonarsi che ti atterrisce...
Io non so se riuscirò mai a fidarmi completamente delle persone, al di fuori dell'incoscienza.

Non ci riuscirai, nessuno ci riesce, nessuno sano di mente. Il punto è un altro, tu devi imparare a fidarti di te. Perchè tu hai una paura fottuta delle tue possibili reazioni. Non ti spaventa cosa ti possano fare gli altri, ma la tua risposta.

Dicono che io sia pazzo, una maniera come un'altra per bollarmi con qualcosa di scomodo per la verità che io getto loro in faccia in maniera lampante.

Non lo sei, ma ti piace pensarlo.Non mi piace neppure pensarlo.

Oh sì, invece...secondo me l'unica cosa adamantina è la tua coerenza che tu ti compiaci di dipingere come schizofrenia, ma è solo coerenza. Tu sei la persona che non fa ciò che non vuole fare.

Ma non voglio parlare solo di questo, però.

Neanche io


Cazzo nelle persone c'è tanto. Io non voglio essere giudicato o apprezzato per come amo. Io lo so come amo. So di essere speciale in questo. Perché la gente ha paura di sentirsi importante? Io le persone le faccio sentire importanti. Perché è bello sentirsi importanti, cavolo. Perché non si comprende che si può arrivare a fare qualsiasi cosa quando si vuol bene? Io non lo dico, io lo faccio. Gli annunci vuoti sono roba per ipocriti... Voler bene è l'unica vera e autentica promessa che si può fare, eppure spaventa così tanto... Sembra più facile apprezzare quella fragilità e quella regolarità non destabilizzante, che non ti sconvolge, che non ti insinua alcun dubbio nei castelli di carta che abbiamo elevato. Che ti consente di vedere il mondo sempre e solo con i tuoi occhi... Ma il mondo resterà sempre identico così, sempre immutabile, rassicurante e palloso... Quella convenzionalità standard e universalmente accettata come la VISA che non ti fa franare la terra sotto i piedi, i cui equilibri sono semplici ma alla lunga noiosi se durano oltre pochi incontri e pochi attimi. Quanto è facile vivere l'effimero... Io lo trovo così inutile... Per questo sono solo. Come se nella vita possa esserci un interruttore sulle emozioni, ora le voglio vivere, domani forse no... E spengo la luce quando mi pare e piace. Oggi mi servi, domani ti licenzio, dopodomani ti prendo a co.co.co... siamo ridotti a bestiame da monta... E l'assoluto? E la felicità? E la bellezza? Ci abbiamo già rinunciato? Che divertirsi per tenerezza è un conto, e tra due persone intimamente complici io lo comprendo e lo sostengo, ma coi sentimenti... è un'altra cosa... Forse mi contraddico, ma io seguo sempre l'istinto, e sono trasparente, per questo la gente si spaventa... io lo so. Il grigiore è molto più innocuo... e confortevole.

Tu pretendi l'abbandono altrui per non mettere in gioco il tuo...Sono così tanto affetto dalla mia ingombrante presenza?

No, sei terrorizzato dal perderti.

Ma se mi getto via con una facilità estrema...

Abbandonarsi significa darsi, non gettarsi, è un atto di volontà, non un atto di sospensione del controllo.E quindi?

Rifletti. La seduta è sospesa. Alla prossima, ecco il tuo appuntamento. Ciao.

Ed io non ho ancora capito un cazzo di niente. Che poi perché "perdersi"? Mica ci stiamo "donando" come dicono i cattolici.. è qui che alberga la propria massima esaltazione... qui le cose si fanno insieme ed ognuno per i cavoli propri, ed il bello è che le due cose coincidono!

A slow step to ultimate goodbye








- So, Alcor, how are you?  How much  from the last time, old loony  foolish?!

- Hi John, I'm very very glad to see you.

- Uhm, I'm finding you a little slimmed...

- Yes... I'm trying the ascetic life according to Schopenauer, in order to get nolontà status...

- You'll never change, my friend...

- Why I have to change?

- No... But you are limping!

- No, it's nothing, my ankle is just joking... Shit...

- Did you run?

- Sure... 20 km, just tonight...

- Tonight? Are you mad?

- I started at 18.30, and I came back at 20.30... it was growing dark while I was still so far from home... It's wonderful running in the darkness, It was also raining... I can't stop one of the most pleasant topic in my life...

- Alcor travels at a speed of 10 km/h! You should work hard to boost your performance... Take a cigarette, idiot...

- Thank you, John. Usually I don't smoke, but I'm learning to heal about it... John?

- Yes, Alcor?

- What do you think about people?

- Could you restrain the issue, please? (smile)

- Yes, you're right (laugh)... Do you think it's possible to comprehend them just in few days, by few glances, by few words...

- It's possible to live being sure of knowing perfectly somebody along several years, but you could always find out something strange in her, something new... Go together somebody, I think, it's really don't cease to learn anything of new in her to wonder your life, every new day... People should not be understood... but felt inside us...

- Yes...

- Are you sure to be fine, Alcor?

- Sure, but give me another cigarette, please... Don't you see how I'm fine?

- Yes, you are like a cloud before thunder... I think you are waiting for something... isn't it?

- Maybe... life is waiting, a cursed and useless waiting for someone...

- It's very clear how you are... (smile) Here is your second unusual cigarette... Però basta a parlare inglese che mi sto rompendo le scatole.

- Come vuoi.

- Scotch?

- Doppio. Con ghiaccio. E lascia pure la bottiglia.

- Ti sei fregato forte.

Non posso allontanarmi da questi percorsi per una decina di giorni che mi ritrovo le ciliege arrossate ed i gelsi acerbi e precoci sugli alberi.
La pioggia cade inclinata dal vento che spira da nord-ovest. Il Sole è una ferita tra le nuvole che brucia questo vento.

Tutto quello che mi rimane di una serata calata troppo presto.
Esiste un punto in fondo a tutto dove l'egoismo e la voglia di vivere gli altri spariscono entrambi. Diventano la stessa identica cosa. Ha pure un nome, 'sto punto.

Che fregatura.
 

mercoledì 28 maggio 2008

Agenda esistenziale

La mia agendina è satura. E dopo averla riempita di cazzate parigine, la relegherò alla raccolta differenziata. Per defenestrare completamente da questo mondo i miei pensieri in maniera pulita ed ecologica.

Il fogli del solito quaderno con Titty e Gatto Silvestro in copertina rosa sono tutti strappati dall'uno e dall'altro lato, e se volto le pagine queste mi vengon via. Tra l'altro durante lo speranzoso viaggio d'andata ho scoperto cose scritte un paio d'anni fa. Cose assurde che per pietà ho deciso di non cancellare.

Non mi capita di avere mal di stomaco in maniera costante da qualche anno. Very good, non mangio e son contento.

Il Moleskine, intanto... direi di no, s'è sputtanato assai. Il mio barbiere a Natale regala ombrellini che non ti riparano nemmeno da un fiotto di sperma, mentre un altro mio amico che fa il barbiere ai suoi clienti regala l'agendina moleskine taroccata in Vietnam. Ma che il suo dovere lo fa bene, senza pensare che magari un bimbo di 5 anni è morto di fame e stanchezza per incollare la copertina in finta pelle. 
In Vietnam l'economia procede e cresce, si muore di fame più in Italia ormai. Tra un po' vedremo le navi colme di rifugiati che partono da Brindisi per raggiungere Valona, in Albania. Questa sta conoscendo buoni tassi di crescita, alla faccia nostra. Mi sto già industriando a mettere i soldi da parte e comprare una barca peschereccia ormeggiata nel Mar Piccolo per fare il trafficante, è redditizio, e almeno lì in Albania non si ritrovano un modello di bambolo gonfiabile come Raffaele Fitto ministro. 
Se Fitto è diventato ministro io sarei dovuto diventare come minimo Cavour, con tutto il rispetto... 

Odio i barbieri perché fidelizzano la domanda dei consumatori e difficilmente subiscono le fluttuazioni economiche. Fanno cartello e nessuno li pensa, quando invece andrebbero frustati col castrato di Toro di Pamplona, perché sono tra coloro che maggiormente incidono nel caro-vita. Altro che il petrolio. Dico a voi, gente, se non ce la fate a dar da mangiare al porcellino di porcellana e a voi stessi, non rompete il cazzo a Padoa-Schioppa, prendetevela col fruttivendolo, col barbiere, e con l'avvocato. 
E con voi stessi, giacché ci siete.
La domanda di barbieri è fottutamente inelastica, anche con chi ci va scarsamente due volte l'anno come me quando proprio non ce la fa a resistere al caldo estivo, o perché d'inverno la coppola in tweed non ce la fa a contenere il casco nero peluche che mi vien su.

Tredici giorni fa, partivo per Torino. Non partiva quel coglione di R. incapace com'è. Son partito io. 
E se ci ripenso a come mi sono messo in viaggio, mi viene voglia di spararmi nei coglioni.

Che è vero che lo stato d'animo gioca un ruolo cruciale, ero talmente contento di partire che avrei viaggiato col triciclo di mia cugina di quando aveva un anno e mezzo. Ora ne ha tre. Assomiglia a mia madre, e quindi un po' anche a me. Però è carina, nonostante questo. Perché oggettivamente è mia madre ad essere bella.

Leggevo l'Economist giù al porto di Taranto, mancavano ancora almeno 4 minuti alla partenza prevista. La folla dei partenti era vagamente assortita. Tutti pressochè intorno ai 60 anni, e la cosa cominciava a puzzarmi. Mi accomodo nel mega autobus su cui devo viaggiare per 11 lunghe ore, e immediatamente comprendo che è necessario dare sfoggio alla prepotenza. Provo ad abbassare tutto il sedile in modo da far intendere, a chi starà dietro, che deve abituarsi all'idea.
Macché, il sedile si abbassa solo di 10° scarsi, e sento già il coseno della rottura impadronirsi di me. Però è sempre stato bello andare in giro su ruota la sera, scorrere paesi e impronte umane su altipiani e monti invisibili nel buio notturno come foseero sospesi nel cielo, come ferite della volta buia. 

Il sole tramontava alle 19.50 quel giorno. Poi ho smesso di capirlo il Sole.

Da una domenica il Sole gioca strani scherzi e capita ogni tanto, poi torna, poi mi chiama, poi mi saluta, poi lo cerco io, poi io esco, poi torno, poi non c'è, poi ho sonno, poi resto lo stesso, poi mi son fregato il cervello. Lo so.

Tra mezz'ora devo andare a correre e devo essere rapido a scrivere questo inutile post. Potrei anche non scriverlo visto che non serve a niente. E in questi giorni di idiozie ne sto a menare con la pala...
Anzi magari fa pure danno, palesando quanto di peggio è in me. Ma chi se ne importa. La catarsi è catarsi, anche se probabilmente necessiterei di una lavanda gastrica mentale.

Con mio sommo dispiacere, tornando all'epopea del viaggio, mi accorgo che giunti nei pressi dell'amatissimo capoluogo di regione sale altra gente, e mi predispongo a dare il saluto estremo al silenzio e alla comodità. Intanto iniziano a chiamarmi, ricevo minimo 7 telefonate nel giro di un'ora; il tempo di fermarci, sostare diverso tempo a fare un emerito cacchio, e consentire ai nuovi viandanti di salire sul mezzo pachidermico che pare ingoiarci tutti. 
Io ero al telefono col mio amico di PD, e vagamente mi pare di udire schiamazzi di gente scontenta, coppie di anziani che sono state insieme per quasi 50 anni e che ora si sentivano di crepare a star seduti lontani nell'incolmabile distanza siderale di un cazzo di pullman. Manco se dovessero pomiciare durante il viaggio, eccheccazzo... durante la fase di conquista alla seggiola che evitavo di guardare per impedire che quel senso di gioia sincera e avvolgente che mi recavo dentro venisse turbato dal ridestarsi del mio intrinseco disagio a stare con la maggioranza delle persone. Una ragazza mi fa un cenno.
Mi chiede se è libero il sedile accanto a me.
Ero al telefono a discettare di luride cacchine provinciali in seno al mio partito ancora per poco, di cui francamente non me ne importa già più niente. Faccio segno a codesta che può accomodarsi e mentre con la sinistra reggo il telefono, con la destra tolgo di mezzo l'Economist, il quaderno con la copertina rosa di Titty e Gatto Silvestro, la penna, l'agendina, la borsa gialla da prof., la bottiglietta di tè che aveva il dovere di murare oltre la stitichezza le velleità evacuanti della mia ampolla rettale.
Lei si accomoda, senza neanche una borsetta. E mi assale un fresco odore di deodorante intimo femminile col quale, probabilmente la stessa doveva essersi fatta gli impacchi.
Vestita male ma molto comoda. A differenza di me che ero vestito bene, ma comodo lo stesso.
Abito sportivo e leggero, vestizione abbondante. Occhi chiari, chioma nera, ma non lunga. 

Io amo i capelli lunghi invece, li amo in maniera folle. Mi piace accarezzarli per ore intere al punto di farmi tingere del loro colore le mie mani. Farmele massaggiare indirettamente dalle impercettibili striature di quella liscezza e quella morbidezza. Mi piace scendere giù lentissimamente, quella lentezza che è propria e lieve di un oggetto instabile che senti scivolar via e nell'attesa del calo che si aspetta improvviso ti si cosparge la pelle di brividi e un vertigine, piano fino alle punte e accarezzarle lì. Avvolgendole e arricciandole intorno al mio indice e poi passare delicatamente il dorso della mano sul collo. Ah... il collo. Secondo me il collo è la parte migliore di una donna. Quando è chiaro, liscio, perfettamente posto come un ponte tra il corpo così reale, così fisico e tangibile, sussultante al respiro ed ad i passi, così elquente nei gesti e nelle sue autonome espressioni, così vivo e umanamente pieno ad ogni profondo e rigonfio immergersi della passione, ed in cima al ponte, il viso. Quel viso che ti guarda e ti sorride, che ti accende il più suadente dei giochi di complicità, quegli occhi così persi altrove, mentre li fissi per una sorta di magnetismo inesplorato mai. Quando sei abituato a rivogerti agli altri con la coda dell'occhio schiva e impenetrabile. E te le senti completamente dentro quelle pupille che non sono castane, non sono così scure, e non sono nemmeno verdi, ma sono esse stesse un colore proprio loro ed unico,  e sono semplicemente la miniatura preziosa di tutto quello che ti trascini dentro ogni attimo, quando pare che la vita ti osserva unicamente da lì, quando tutto intorno è buio pesto e si spegne lontano ogni cosa che non sia minimamente collegata da qualche pensiero, o da qualche richiamo, al suon di lei.
Che se non ci fosse, a cosa servirebbe ormai quest'enorme pupazzata? Smontate tutto, tende di colline e tappeti verdi sui bassipiani, città in fumo e fiumi ai bordi della ferrovia... espungete questo cielo interpolato nella mancanza di lei che è tutto un vuoto senza margini di risalita su nell'aria limpida bagnata dalla pioggia adamenatina e dai freschi pensieri... E spegnete il giorno, riavvolgete il nastro del canto del mare e non consentite il riflusso all'eco di quel fragore... e ripulite la notte da ogni sogno bugiardo e traditore. Tirate via le colonne montanti d'ogni muro ed ogni limite alle parole ed ai giudizi che pendono da questo, e scucite via i passi dalle strade, soffiate il vento in una borraccia, e chiudete gli occhi senza dormire. Imprigionate la vita in  sacco polveroso e rattoppato col cuoio, e montatela su un carro trainato da asini zoppi. 
Portatela via, che non serve a niente.

Che cosa vuol dire vivere nella penna di un maldestro poeta... non si morirà mai del tutto.

Smetto di scrivere in pullman anche perché è buio, e non ci sarei più riuscito. Che faccio? Michael Nyman, Yann Tiersen, Radio 1, Radio 2... poi come era prevedibile mi rompo le palle.
All'ennesima sosta in neanche un paio d'ore non ho bisogno né di stiracchiarmi, né di camminare, né di fare altro. Mando qualche messaggio alla solita malcapitata. 
Non mangio, non bevo, mi gusto la rottura fino all'ultimo scricchiolìo di testicoli frantumati.
E questa accanto non parlava, e a me di aprir bocca non mi veniva voglia. Le avrei detto soltanto "E non hai pietà tu di me..." ma sarebbe scappata via chiamando aiuto, perché non credo che abbia mai visto in vita sua Bianca o Palombella Rossa... Mi capitò per caso di guardarle il biglietto di viaggio, prezzo pieno, non usufruisce di agevolazioni, ha più di ventisei anni... non ci avrei scommesso.
I vecchi sono più insopportabili dei bambini capricciosi. Se insieme ai vecchi acciaccati in viaggio e dediti alla lagna ci sono anche dei bambini capricciosi non chiedetemi più perché sono misantropo.
Quelli alle nostre spalle erano di una razza rara. Con quella voce tracheica divorata dalle sigarette che emanava infrasuoni che facevano tremare i semiassi del catorcio insano che ho avuto la bieca idea di prendere.

- Lei dove va, signorina?

- Milano.

- Ah, Milano... se non altro avrà la fortuna di smettere di ascoltare la lagna di questi qua prima di me... 

Lei ride, io le sorrido in risposta.

E da quel momento la stessa mi guardava e sorrideva ad ogni imprecazione e ad ogni invocazione di quell'essere nei riguardi di Padre Pio affinché lenisse la sua pena da purgatorio, come se il santo più commerciale della storia avesse finanche il tempo di pensare ai suoi reni, con tutti i cazzinculo che pullulano nel creato. Vero è che che con tutti i milioni di euri che attorno a Padre Pio si muovono ognuno ha diritto a pretendere come minimo in gratia plena ogni più assurdo capriccio. È una legge di mercato, accidenti.

E stamattina ho litigato di brutto con mio padre. Stufo di me peggio di quanto io possa essere stufo di lui e di questa mega idolatrata istituzione sociopatologica della vita quotidiana chiamata famiglia.
Lo so che mi guarda e vorrebbe falcidiarmi la faccia di schiaffi. Lo so che dentro di lui feroci dubbi si accumulano quando non mi vede fare un cazzo e perdere tempo davanti al computer mentre aleggia la mia attenzione tra una pagina bianca piena di numeri a lui incomprensibili, e una pagina bianca su cui scrivo io. Che mentre transita con le bottiglie di vino in mano nel corridoio a me adiacente sghignazza disturbato dalla mia vista nella quale incespica la sua dis-attenzione, ed alla quale purtroppo mi assoggetto anche io con malincuore estremo. Lo so che non sopporta il mio silenzio  quando mi chiede qualche informazione sulla mia vita sì tanto incomprensibile. Lo so io, che ritiene che io mi ricordi della sua brumosa esistenza allorquando devo sommessamente bussare alle casse familiari a guisa di ammortizzatore sociale per le mie indispensabili scorribande esistenziali. Che ancora in pochi capiscono com'io mi arrangio l'esistenza, perché mai mi entran soldi in tasca, e soprattutto che diavolo produce di essenziale per il mondo questo mio quieto presenziare al lavoro e al banchetto magro di questi tempi solitari, sognando un lauto ed infinito convivio a due con l'essere speciale che più bello non esiste, e che sì, è prova inoppugnabile che qualcosa di buono si muove ancora in questo pianeta, ora non più sì tanto lercio al mio severo sguardo. E che Dio c'è stato un giorno in cui si sentiva davvero in gran forma... 

E diamine dovunque parto là sbatto sempre le corna, ormai...

Lo so cosa si contorce nel suo fanciullo intelletto paterno quando il suo occhio piccolo e attento scorre lento e rassegnato tra i titoli esposti della mia libreria, nel trovare inscritto tra i vari tomi:  "La peste", "La nausea", "Le mani sporche", "Il Muro", "L'essere e il nulla", "La cognizione del dolore", "Morte a Venezia", "Verrà la morte e avrà i tuoi occhi, ed altre poesie di Cesare Pavese", etc...etc... Così come individuo la minacciosa smorfia di schifo quando preferirebbe vedermi al rogo, scorgendo Lo Spaccio della Bestia Trionfante pensandomi chissà forse ad adorar un crocifisso capovolto con gente incappuciata a squartare vitellini e capretti. Certo, magari prima di accendere il fornellino a carboni, ed aggiungere un pizzico di sale ed erbe aromatiche. E trafiggere ed immolare quelle carni ovine con lo spiedo arroventato. Che il sacrificio va fatto, e fatto bene. Vorrebbe domandarmi cosa si cela accanto ad Utopia di Thomas More, e alla Città del Sole di Campanella. Niente. E non ne ha neppure il coraggio. 
E solo un casellario più in basso si rinfranca la vista tra i volumi di matematica, di analisi I & II, si rigenera pensandomi dedito al calcolo matriciale, certamente meno nefasto alla corruzione dell'anima della turpe creatura che più di  25 anni or sono, gemeva già folle nei suoi testicoli.

E tu, padre, che ne sapesti mai di me? Che cosa ne saprai mai... Che non hai accettato niente, soffocando nella rabbia e nel silenzio i miei insoliti impulsi di vita...
Che non è mai servito a nulla circondarmi di averi e umani sentimenti... che a prescindere dal ruolo che è stato assegnato agli esseri viventi che mi è dato di incontrare, la mia stima ed il mio affetto te lo devi meritare coi fatti, non con i diritti di procreazione. Perché l'amore non basta... Mai, e verso nessuno.
Perché oramai io vivo al di fuori del tuo sperma, e della placenta che mi ha nutrito quando non riuscivo ancora a pronunciare da solo la maniera più fredda per mandare tutti a fanculo. Voi che pensate di poter influenzare con la vostra bile il mio sentirmi parte di un mondo diverso, generato e non creato della stessa sostanza della mia mente lucida e razionale e calcolatoria, come Caligola.
Siete preoccupati per me. E con che diritto lo siete?

Ed una settimana fa, precisamente a quest'ora in cui scrivo (19.32) e non so a che ora riuscirò a postare, passeggiavo avanti e indietro lungo boulevard Saint-Michel come uno spermatozoo alla ricerca dell'ovulo. Leggendo uno di quei giornali gratuiti in carta tossica e corrosiva, ovviamente in francese e non capendo una mazza di niente, tranne che di una possibile agitazione sindacale dei trasporti parigini a cui avrei dato, non senza una punta di opportunismo, il mio comunistissimo sostegno rivoluzionario. Perché si sa, fermare i trasporti è un po' come fermare il tempo e costringersi a restare, al netto delle cretinate alla Bergson che mi feci venire in mente due giorni prima contemplando la chiesa di Saint Eustache a Les Halles. Laddove ho trovato tuttavia più architettonicamente  deliziosa la Borsa di Parigi. Deformazione professionale. E dove mi stavo ritrovando un paletto anti-sosta-et-fermata conficcato nell'inguine per il semplice vizio di camminare scrivendo, ovunque mi trovo. 
Ascoltando la stessa musica... di una accanita rincorsa serale tra i cambi della metro e la minuscola goccia di sudore di tachicardia non congenita, di quell'immensa attesa di me stesso come Lucien Fleurier, come Erostrato, come Pablo Ibbieta, come Pierre... e tutti gli antieroi che hanno resistito e tenuto saldo il controllo... tutti spiaccicati su quel muro di pagine mosse dal vento, e da queste parole senza apparentemente senso...

Ed ho paura di trovarmi una risposta a quel che mi aspetto. Perché qui, tutto crollava ad un passo dal possibile. Paura di decidere... e se riascolto, se rivivo, ci sono ancora...  Eppure non l'avevo mai immaginato, eppure avevo sradicato da me con vigore e convinzione tutto questo da tempo... eppure... Nei fiori tra l'asfalto e nel cobalto con le nuvole che lo scolpiscono io ritrovo tutto dove quell'azzurro cielo non cambia mai... nei sogni in fondo a un pianto, c'è sempre un senso...

Stavolta non ci indovino con la musica, eppure... un giorno... io lo dipingo così.

martedì 27 maggio 2008

Ha la buccia sottile, è sensibile, matura presto


Ne ho già parlato tanto tempo fa... ma la vita ritorna in forme strane, e poi... cazzo, le parole non sono abbastanza, non sono abbastanza forti. Non abbastanza importanti...





Oggi è il giorno della crisi mensile dove distruggerei il blog... e fino alla fine...  niente paura, succederà.

Qualche giorno non basta, cristo. Non MI basta.





Innuendo & Incomprehension



LA GIOVANE SIGNORA: Sei qui? Come sei entrato?

L'UOMO IN FRAK (resta dapprima immobile, poi si volta appena a guardarla: cava da un taschino del panciotto scollato una piccola lucida chiave e la mostra: quindi se la rimette nel taschino).


LA GIOVANE SIGNORA: Ah, l'hai ritrovata tu? Proprio come avevo sospettato. Quando te la richiesi, dopo la tua ultima imprudenza.


L'UOMO IN FRAK (sorride).


LA GIOVANE SIGNORA: Perché sorridi?


E non vuoi capire che la tua coscienza significa appunto "gli altri dentro te"?
Abbiamo tutti dentro un mondo di cose: ciascuno un suo mondo di cose... Covando attese, sospetti, paure e angoscie di scelte che non ci competono. Scelte che vorremmo compiere, altre che sono negate, altre che attendiamo da chi ci circonda come rispondenti all'immagine di costoro che si traccia in noi nella miscela di desiderio e aspirazione, nonché di quello che ci si congegna di essere e apparire nell'incredulità d ritrovarsi ogni volta al cospetto di uno specchio in frantumi che proietta infiniti ologrammi di immagini incomplete. Ma in ciascuna sillaba, in ciascuna emissione e gesto, si compie l'unione e la chirurgica cucitura d'ogni meandro disperso in noi, e fuoriesce in maniera talvolta spesso confusa e incomprensibile perfno a chi involontariamente è padre di quei sussulti e quei pensieri... E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch'io dico metto il senso e il valore delle cose come s'agitano dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com'egli l'ha dentro?
Crediamo di intenderci; non ci intendiamo mai...
almeno con gli occhi aperti, e nella lingua corrente... dove le semplici parole battono sul banco della corte alla maniera del martello del giudice, in un tribunale senza appello il cui verdetto s'emana elastico di modo da rivestire ogni trascurabile dettaglio di noi.
E poi, prede del dubbio, non ci si parla più davvero... e non ci si stima... e poi si continua a covare, a covare, a reprimere... a parlarsi in testa anziché parlarsi in faccia... e la strada diritta, spianata, sincera si contorce... Se si potesse squarciare con la logica pura questa condizione di lontananza che si innesta irrimediabilmente... se fosse possibile adoperare le parole giuste che indichino sempre e soltanto la reale condizione entro cui si affilano i pensieri... se fosse possibile essere maschere di vetro infrangibile, ove potersi lasciare guardare dentro. Se fossimo tutti ciechi, oppure sordi, se lasciassimo l'onere dell'ascolto o dell'analisi a quel che ci si asconde in noi, alla fiducia e al bisogno dell'altro che si spera possa esserci... se potessimo vivere in totale simbiosi con quello che di noi vive e si muove negli altri, coerenti senza rimorsi per la mancanza di abnegazione all'affermazione del proprio irrinunciabile essere... Se fossimo davvero sempre e soltanto UNO... e mai CENTOMILA... se fossimo, e nulla più.
Questa siepe, che da tanta parte il guardo esclude, sarebbe solo fresca ombra d'agosto.



Alberto Saporito è un apparecchiatore di feste popolari, e vive col fratello Carlo e lo zio, Nicola. Quest'ultimo ha da tempo rinunciato alla parola, si esprime sparando botti e mortaletti, ogni segnale è un messaggio, asciutto e sincero, senza alcuna possibilità di corruzione nella comunicazione. Una notte Alberto sogna che i vicini di palazzo, i Cimmaruta, uccidono l'amico Aniello Amitrano e ne occultano il cadavere. Nel sogno, lucidissimo, Alberto vede dove sono nascosti i documenti che possono incastrare i vicini. L'indomani, fatta la denuncia in questura, fa arrestare i Cimmaruta e rimasto solo in casa con il portiere Michele, cerca i documenti. Solo allora, all'improvviso, s'accorge di aver sognato il tutto e capisce il guaio che ha combinato.
Ritrattata la denuncia dal commissariato di polizia, Alberto si trova ora nei guai: Il procuratore della Repubblica, insospettito, crede che egli abbia ritrattato per paura od altro. Inoltre, rischia una querela per calunnia da parte dei vicini. Ma l'irruzione di questo evento scatena in una rapida degenerazione un meccanismo che svelerà tutte le meschinità celate dei protagonisti. Carlo, il fratello, sperando nell'arresto, cerca immediatamente un compratore per tutto il materiale per l'allestimento delle feste popolari, e tenta di farne firmare ad Alberto la cessione (con pieni poteri), adducendo varie scuse. I Cimmaruta, uno alla volta, sfilano dinanzi all'impressionata figura di Alberto, ciascuno pronto ad addossare la colpa dell'omicidio ed il proprio perentorio J'accuse su un altro membro della famiglia stessa verso il quale nutre un  risentimento represso che non è mai riuscito a trarre fuori per debolezza, inettitudine oppure orgoglio... Pasquale Cimmaruta il capofamiglia, piegato e affranto, pronto a dare addosso alla moglie chiromante di cui sospetta da sempre il tradimento reiterato e che lo tratta da sguattero... ed è a sua volta accusato da questa, che dentro di sé cova la rabbia di avere un marito impedito e debole, incapace di essere all'altezza del suo ruolo. La sorella di Pasquale, Rosa che teme che l'assassino possa essere stato Luigino, il suo nipote così sfiduciato, sbandato, confuso e stravolto... Quest'ultimo a sua volta accusa dell'omicidio la zia che avrebbe la mania di fabbricare in casa candele e saponi... ed una zuffa scatenata dai rancori finalmente sfoderati tra tutti i reciproci carnefici alla fine del secondo atto conclusasi con zi' Nicola che rompe il muro del suo silenzio ed urla dal suo piccolo soppalco: "Per favore! Un poco di pace!", per poi morire lanciando un bengala verde, il segnale di via libera...
I Cimmaruta converranno, alla fine, di dover assassinare Alberto per salvarsi, per ristabilire il silenzio e l'ipocrisia che serpeggiava tra loro... per redimersi falsamente da un omicidio che, nel finale della commedia, si scopre essere veramente un sogno, in quanto Aniello Amitrano è vivo e vegeto. Alberto, a questo punto finale, finge di aver trovato i documenti, e convoca tutti per emettere la sua amara sentenza, in un tribunale kafkiano che coinvolge tra gli imputati egli stesso, responsabile di aver ritenuto possibile che i suoi vicini fossero stati capaci di quell'omicidio:

"Assassini! Ma che parlo a fare? Parlare è inutile! Voi mò volete sapere perché siete assassini ... in mezzo a voi magari ci sono pure io e non me ne accorgo ... Avete sospettato l'uno dell'altro ... Io vi ho accusati e voi non vi siete ribellati, lo avete ritenuto possibile. Un delitto lo avete messo fra le cose probabili di tutti i giorni; un assassinio nel bilancio familiare! La stima, don Pasqua', la stima! La stima reciproca che ci mette a posto con la nostra coscienza, che ci appacifica con noi stessa, l'abbiamo uccisa! E vi sembra un assassinio da niente... Come facciamo a vivere? A guardarci in faccia? La fiducia scambievole ... senza la quale si può arrivare anche al delitto. Avevi ragione tu, zi' Nicola, ma che parliamo a fare? Parlami tu, zi' Nico', c'aggia ffa'?"
Più forte, zi' Nico', non si capisce... parla più chiaro... zi' Nicola m'ha parlato, ma non si capisce..."


tratto da Eduardo De Filippo, Le Voci di Dentro, Atto III


La lealtà, la lealtà è un debito, e il più sacro, verso noi stessi, anche prima che verso gli altri. Tradire è orribile. Tradire è orribile.


tratto da L. Pirandello, Sogno (ma forse no)



lunedì 26 maggio 2008

A spasso con Kierkegaard e l'Ego trionfante - chapter 2

Agamennone compì una scelta. Era un capo, ed il capo deve riuscire a dispensare con saggezza punizioni ed onori, tamquam in commentariis de bello gallico Caesar docet. Ma il ruolo incarnato condensa già in sè il paradigma compiuto delle scelte che non riserva alcuno spazio alla meditazione delle opportunità. Il copione è già scritto al di fuori d'ogni intima e personale convinzione circa la bontà del proprio imminente operato. Agamennone aveva arrecato offesa ad Artemide rivolgendosi ad ella con  arroganza dopo averne trucidato una cerva sacra; un errore che un capo non può permettersi. Ducere richiede un'approssimazione alla perfezione più intensa che a qualunque altro essere seguitante l'altrui sommo esempio. La dea, incollerita da cotanta protervia scatenò acrimoniose tempeste al largo delle coste della Beozia, impedendo alle triremi achee di salpare alla volta di Troia. Aurispex Calcante, mediatore tra creato e creanti, indicò in un sacrificio che saziasse la dea inappagata della sanguinaria sete l'indispensabile riparazione all'offesa arrecata. Agamennone immolò sua figlia Ifigenìa all'altare della divinità per consentire il compimento della vanagloria del suo popolo tra le inutili macerie e le ceneri della città di Priamo, laddove egli stesso conobbe le fauci dell'Ade.

"Vexilla regis prodeunt inferni
verso di noi; però dinanzi mira",
disse 'l maestro mio, "se tu 'l discerni"

[...]

"Quell'anima là sù c' ha maggior pena",
disse 'l maestro, "è Giuda Scarïotto,
che 'l capo ha dentro e fuor le gambe mena.


E Giuda allora? Che personaggio sublime nella malattia mortale della sua "non scelta"... Se Kierkegaard è stato il padre dell'esistenzialismo, Giuda ne è stato il progenitore atavico. Nel doversi eternamente consacrare all'odio e al male per spalancare i cancelli all'affermazione del bene nella sua forma maggiormente elevata.
Nella più crudele veste di rinuncia di sè che lo scibile umano possa configurarsi mai.
E raccontate ai quattro sentieri che strisciano meglio di quanto aleggi il vento e si ramificano portando via con essi una brano inconcluso di me, quale follia muove ogni acuto di voce che sconfigga una volta per tutte questo estraneo silenzio che non mi consente di riconoscere e ritrovare, e rimediare.
Ed ogni cosa comporta sacrifici tali, nelle non scelte a cui si genuflette l'individuo inesausto della sua schiavitù tenera, che pur nel tripudio del soddisfacente ristoro dalle lacrime conserva ancora quell'embrione di rinuncia e piaga che è insita ad ogni mossa per cui val la pena di agitare un dito.

Non riesco più a piangere. Non trabocca, non scalcia la mia rivolta.
TELEFONO

Finalmente riusciamo a parlarci... come stai? Io, bene. Sì... sì... Come? No... ieri sera non sono uscito, non mi andava poi molto. Cosa ho combinato? Be', direi che sono un po' dimagrito... del resto... ah, sono contento per te. Davvero. E che ti devo dire, non so cosa pensare... qui è tutto un casino di albe e tramonti che tu non riesci neppure ad immaginare... non fa niente che non capisci... sì lo so, comincio a dubitare io stesso di avercela ancora una testa sul collo... sai De Chirico? "Il grande metafisico", che dipinto meraviglioso... 1917 se non sbaglio... A presto, ciao...






Una delle rarissime persone che riesce a causarmi sulla corteccia cerebrale un ruvido altorilievo della nostalgia. E mentre finisco di parlare al telefono mi ritrovo in una piccola macchina color grigio chiaro metallizzato, e infilo una mano fuori dal finestrino per aprire lo specchietto retrovisore lato passeggero.  Dove stiamo andando? Fidati e sta' zitto.
 
- Mi fai il favore di togliere quelle mani dalla mia nuca per piacere?

- Ahia! Alcor, ma sei impazzito! Che hai a quella mano?

- Che ho? Niente.

- C'hai gli artigli!

- (terza intervenuta) Vediamo? Ma suoni la chitarra?

- Sì.

- Hai la mano sinistra con le unghie corte e la destra con le unghie lunghe, chitarra classica o acustica, direi.

- Perspicace la donna. Vediamo se sai fare di meglio... guarda qua.

- Acustica.

- Donde lo desumi?

- Hai i calletti dei polpastrelli più duri e scuri, quindi corde di acciaio, quindi chitarra acustica.

- Complimenti. Grava già un'ipoteca su di te?

- Come dici, scusa?

- Niente, lascia stare; stavolta pretendo troppo è evidente. E poi hai già dimostrato abbastanza, tranquilla. Stasera sono piuttosto magnanimo. Tu, togli quelle manacce e prendi esempio dalla tua amica. Tu invece le mani mettele pure, mi permetto di dirtelo tanto non lo farai. (Sorrido)

- E chi te lo dice?

- Hai un diamante all'anulare sinistro. E non è nemmeno tanto discreto. Nonostante non mi pari così tanto convinta... ma non ti preoccupare gli attimi di incertezza capitano. Soprattutto quando si fanno pegni così sostanziosi, quasi a volersi radicare intorno ad un dito per sopperire l'assenza. Non c'è, vero? Lontano parecchio? Torna raramente? Magari in questo momento sta anche lavorando e non chiama, o almeno così ti ha raccontato... forze armate, giusto? Missione all'estero? Direi probabilmente che si trovi da qualche parte come i Balcani, anche se è primavera lì si gela. Probabilmente porta anche la barba lunga. Quando tornerà andrà a salutare prima il barbiere e poi verrà da te. Per riscaldarsi fuma un sigaro toscano trafugato a poco prezzo in una bottega a Sarajevo... con quella barba lunga assomiglia al "Che", ma no, sono sicuro che è pure di destra...  senza offesa ovviamente. Mette soldi da parte perchè si avvicina il momento giusto per consolidare il rapporto, anche se non credo che stiate insieme da molto tempo, giusto? Però a furia di star lontani, e con l'età che avanza, meglio cominciare a trasformare in qualcosa di tangibile ciò che è sempre preda dell'effimero. Sai, facciamo tanto i sentimentali, ma abbiamo bisogno di simboli e oggetti che incarnino quello che proviamo. Che tutto si trasformi in un pensiero,  in un oggetto carino, in un regaluccio ogni tanto... Disse Eduardo che Romeo e Giulietta per vivere quello che hanno vissuto per forza di cose dovevano essere ricchissimi, altrimenti con la pancia vuota sai che fine faceva il loro romanzo amoroso? Si pigliavano a capelli dopo qualche minuto... Quanto avrà speso per quella pietra?

- Credo più di quanto tu pensi...

- No... non mi frega niente se ci ho azzeccato o meno, tanto farò di tutto per dimenticarmi queste idiozie nel giro di qualche giorno. Ti vuole proprio tanto bene... non deluderlo.

Quanto c'è della necessità di spogliarsi del proprio essere, del proprio Ego, per essere degli eroi, o più semplicemente per accordarsi qualche vacua idea di successo od affermazione? Quanto si deve rendere in termini di rinuncia a se stessi per portare a compimento il processo di esaltazione della propria pienezza... Sarà per questa ragione che ho sempre sostenuto la causa dei cattivi, che vedevo sempre come esseri infelici che provavano a lasciare un segno nella vita, in tutte le storie dove il trionfo scontato del protagonista amato e riverito non faceva altro che rendere ogni vicenda pallidamente identica ad un'altra. Nella positività solare e indefessa che annoia e blatera un rinnego della vita che è sempre un doversi rinidificare in continuazione tra tesi, antitesi e sintesi. Che la vita non è un'eterna trasformazione monotòna senza origine e senza soluzione di compimento.
Che il bene pretende sempre un annullamento di se stessi così drammatico e disperato da accettare, nella scoperta che la felicità non la si plasma con le proprie mani, ma la si deve attendere dal cielo, come terra arida e assetata... Si muove in maniera così crudele, il bene... è una dittatura, è una totale espropriazione della propria privata identità, è sovietico, il bene. Nichilista è il bene, non è mai prettamente umano. Serve qualcosa che lo superi, che anziché depauperarsi nel punto debole dello stato religioso, approdi ad un nuovo umanesimo.
La pienezza dello spirito che tenta l'ignoto, come Agamennone, la volontà di dominio che suscita l'eroe, Übermensch.

Ho bevuto solo una Weiss pagliericcia da mezzo litro, di fronte ad una donzella magra che ascoltava. Caschetto scuro, colore non suo intonato agli occhiali. Ma le donava il nero, indubbiamente. Che diavolo vai raccontando in giro di me? Perché pensi delle cose senza conoscermi nemmeno un po'... Che ne sai tu?

- Allora? Potrò venire a trovarti a Glasgow?

- Se ci andrò, volentieri...

- Tu verresti a trovarmi a Dublino?

- che ci sta in quell'intruglio arancio-rosa che stai bevendo?

-  ... nel fine settimana son più libera...

- che pessimo sapore 'sta birra qua, ma chi cazzo me l'ha consigliata... scolatene mezzo litro adesso, cribbio...

- ...è semplice, prendi l'aereo da Roma e arrivi direttamente a Dublino...

- ... Certo che "Dublino" merita, vedrò...
Che strane queste trasferte... E poi, una cosa del genere chiestami ora. Proprio adesso che ancora devo rendermi conto di essere tornato senza provare acerbo disgusto per quel che mi circonda in questi momenti. Mi son già trascinato a stento sulle spalle una città ancor più preponderante come effetto collaterale della mia evanescenza, non mi trascinerei in tal maniera anche una persona. Simpatica, tra l'altro. Perché l'ordine sarebbe simmetricamente inverso. L'Irlanda non mi è indifferente quanto la Francia.
E comunque sussiste, il problema, cazzo. Sussiste per me che rido come un idiota.
La più nobile specie di bellezza è quella che non trascina a un tratto, che non scatena assalti tempestosi e inebrianti, una tale bellezza suscita facilmente nausea; ma è quella che si insinua lentamente, che quasi inavvertitamente si porta via con sé e che un giorno ci si ritrova davanti in un sogno, ma che alla fine, dopo aver a lungo con modestia giaciuto nel nostro cuore, si impossessa completamente di noi e ci riempie gli occhi di lacrime e il cuore di nostalgia.

F. Nietzsche

domenica 25 maggio 2008

Honey dreams







Eccoci qui, abbiamo finalmente con noi R. Dobbiamo far presto perché deve andare ad un altro dibattito.
Se qualcuno vuole approfittare per fare qualche domanda può venire qui, abbiamo un microfono... Bene. Come lavora R.? Senza uno schema narrativo, senza una trama definita e con personaggi improvvisati che si identificano totalmente nelle problematiche della storia, o se vogliamo della "non-storia", laddove non esiste alcun intreccio; non c'è un inizio né una fine, ma una specie di zoom introspettivo e retrospettivo addosso a personaggi inseriti in situazioni fittizie
che usano la letteratura per fare auto-analisi... A voi la parola:

- ...E il prossimo!? E il prossimo??? Sono anni che campi di rendita! Sempre gli stessi argomenti: i giovani, la politica, l'infanzia, l'incomunicabilità, il muro, la solitudine, l'inganno! Devi cambiare, è obbligatorio! Ma a chi vuoi che gliene importi di questo tuo nuovo linguaggio? Di questi tuoi strani esperimenti esistenziali! Di queste pratiche intellettualistiche, anticonvenzionali, masturbatorie? Io per me non ci capisco niente... Pensi di essere competitivo così? Se sei contento te! Questi tuoi racconti, queste tue storie, prova a farle leggere ad una stagista bergamasca, ad un portantino molisano, o ad un avvocato calabrese... ti ci porto io...

- Io volevo intervenire... Volevo chiedere una cosa ad R.

Puoi venire qui, da lì non ti si sente.
- Ma io mi vergogno....

Ma qui c'è un microfono...

- Ma no, volevo solo chiedere a R., ma con queste tue storie, con questo tuo blog, che tipo di riscontri hai? Pensi che chi ti legge ti possa apprezzare?

R.: Ma, è difficile quantificare... penso di sì, non saprei... non me ne curo poi così tanto...

- Ma i personaggi di queste tue storie sono tutti personaggi borghesi, il professore, l'attore... il politico, il pilota di go-kart, il musicista... ma non ci sono operai, proletari, immigrati clandestini? C'è troppa gente apparentemente per bene, nessuno si droga, nessuno si suicida, niente stupri, nessuno ammazza qualcuno, ma in che mondo si muovono questi individui di cui parli?

R.:  Veramente io penso che le problematiche siano...

- Ma lei crede veramente che la narrativa sia affar suo? Non ha mai pensato di darsi a qualche passatempo più costruttivo, che ne so... andare a puttane, ad esempio? Lei parla della gente... ma andiamo... se le persone fossero tutte così come lei le descrive... Lei sarà così!!! Lei ci sta parlando sempre dei fatti suoi!!! Delle sue esperienze personali peraltro molto limitate. Ma la sua scrittura non è rappresentativa della vita delle persone!!!

R.: Infatti... io non voglio rappresentare nessuno. A malapena rappresento me stesso.

- Ma la gente che legge queste cose si annoia! Dopo una giornata di lavoro, di studio la gente ha bisogno di divertirsi, di rilassarsi... di leggere frasi meno complesse, vocabili che non trapanano la vista... la gente cerca storie d'amore tra quindicenni che finiscono bene... di peste, corna e pettegolezzi... di lucchetti appesi alle ringhiere arrugginite dei ponti, dei messaggi coi cellulari. Una forma di comunicazione di tipo prepuberale... Ecco non ci sono molti cellulari nei suoi racconti... lei è retrodatato. Si muove ancora con la carta igienica appesa al deretano... Lei è vecchio, lei è nato vecchio!!! Se penso a lei il mondo mi ritorna in bianco e nero... Ma basta... è arrivato il momento di cambiare... non c'è un futuro, lei deve adeguarsi se vuole sopravvivere, ma c'è almeno una donna che ti fila quando parli in quella maniera? Ma non ti vergogni?

R.: Ma io penso che sia necessario recuperare una certa chiarezza nel linguaggio, una certa trasparenza... sincerità, per quello che è possibile...

- Ma che cosa crede che possa essere possibile, lei? Ma ci prende in giro? Pensa che noi non sappiamo come lei vive, cosa fa la sera, che razza di posti ridicoli frequenta... ma lei si diverte? Lei vuole bene a qualcosa? C'è una qualche forma di sentimento dietro quella rigida maschera nuda?

R.: Ma io sono qui a parlare del mio lavoro, della mia scrittura, che c'entra quello che faccio e come vivo? Che cosa si sta giudicando?

- Eh... lo sappiamo noi, lo sappiamo! Da quanto tempo è che lei non va con un donna? Lei non sa ballare, canta come un campanello etrusco riesumato tra i colli aretini... e poi con quell'accento irrecuperabile... ma a cosa crede di servire? E poi, per favore... ma come si veste, con quella pietosa coppola di tweed in testa fino ad aprile... crede di stare nella periferia dei Dubliners?
- Ma ha letto l'ultimo libro di ****** pieno di frasi fatte, luoghi comuni, situazioni tipiche, una vera chicca... Questi intellettuali invece ci hanno stancato, ma a chi vuole che interessino più?
R.: No non l'ho letto, anche se mi farebbe passare la stitichezza potrebbe farmi venire l'ulcera. E poi a me gli intellettuali piacciono invece, tanto. - Ma lei legge quello che scrivono gli altri?

R.: Ehm, non molto sinceramente...

- Ecco si faccia un giro qualche volta, lo sa quanti ce ne sono migliori di lei che si vanno lamentando del mondo? Lei non è originale... lei è superato, lei deve farci ridere! Ad esempio, un po' di Claudio Baglioni, di Eros Ramazzotti ogni tanto non guasterebbe, potrebbero darle una qualche maggiore  possibilità con i giovani...

R.:
(conato di vomito all'udire quei nomi) Ve lo meritate voi Eros Ramazzotti...

Ma ecco, ora che abbiamo ascoltato questi interventi possiamo chiudere qui il nostro dibattito e ringraziamo R. per averci fatto compagnia in questo bel pomeriggio di ultima domenica di maggio...
R.: ...Ma veramente io volevo dire ancora qualcosa...

Non c'è più tempo, non c'è più tempo... passiamo al prossimo autore che quest'oggi ci viene a trovare, e con il quale saremo lieti di chiacchierare sulla sua ultima produzione narrativa. Salutiamo il fenomeno letterario del momento, colui che aspettavate davvero con ansia: Andrè KissMeSoftly! Che ci parla dei suoi ultimi due capolavori: "Qualcuno volò su quella mattonella di piazza S.Oronzo dove mi sono appoggiato per mandarti il primo messaggino", e dell'acclamatissimo successo "Magna Chat"!!! Ecco a voi, signore e signori, il vostro amatissimo Andrè...

STANDING OVATION



sabato 24 maggio 2008

Les cartes du ciel dans une soirée avec Kierkegaard

Se si potesse scrutare costantemente la volta celeste durante tutto un giorno si potrebbe osservare il cielo di un anno intero: passato, presente e futuro, a qualche immaginario chilometro del nostro naso non hanno davvero alcun senso. Un po' di mesi fa una persona mi consigliò di vedere un film sui sentimenti, la genialità, la sregolatezza, e la lealtà tra le persone. Il volgere degli eventi nel corso degli anni veniva scandito dalle recenti apparizioni di comete molto note, come la Halley (1986), la Shoemaker-Levy 9 (1993), la Hyakutake (1996), la Hale-Bopp (1997).
Le comete sono degli oggetti straordinari, alcune orbitano intorno al Sole come qualsiasi oggetto del sistema solare, altre vagano più disordinatamente, vengono rapite dalla forza gravitazionale della stella, come se nella loro fuga senza una destinazione fossero improvvisamente afferrate da una mano che le stringesse forte e le accompagnasse per un tratto breve della loro corsa, per poi liberarle nel profondo cielo senza padroni.
Ma perché il cielo è sempre buio se vi è un'inifinità di stelle nell'universo? Dovremmo essere in continuazione spiati da minuscoli puntini in ogni grado della notte, dopo il tramonto dovrebbe accendersi un infinitesimale e granuloso manto nottilucente intessuto di piccolissimi puntini come una cotta sottostante un'armatura quattrocentesca da torneo cavalleresco, lucente e vitrea, tant'è che l'oscurità non sarebbe neppure mai pensata, non avrebbe mai fatto la sua comparsa neanche nella nostra più visionaria fantasia. In realtà il buio, come assenza di luce, non dovrebbe esistere... Eppure c'è una risposta anche a questo... è che siamo giovani, nonostante tutto.

"Siamo ancora così giovani... sì, insomma... io sono giovane, mi devo ancora laureare e non so come fare a tenerlo questo bambino, tu pure sei così giovane... ma... quanti anni è che hai? 'naggia, non me lo ricordo mai..."

"Ma perché non vuoi ammetterlo? Tu non mi sopporti, non mi parli neanche più come prima..."

"Si si, tutto giusto, tutto giusto... torno subito, eh."

La cometa di Halley tornerà nel 2061, non credo che la vedrò (e chi ci resiste fino ad allora?); la Shoemaker-Levy 9 si è schiantata su Giove offrendo un bello spettacolo pirotecnico; la Hyakutake tornerà nel 72000 d.A ("dopo Alcor") circa, perciò lasciamo perdere... la Hale-Bopp, l'unica che mi sono ben "goduta" (ed oggi quest'ultimo verbo mi è molto molto antipatico), dovrebbe avere il prossimo perielio nel 4380, se consideriamo che le prime civiltà umane sorsero in Mesopotamia e in Egitto circa nel 4000 a.C., la Hale-Bopp penetra il nostro mediocre intelletto con più gradevole grazia e comodità... ah, what a feeling of levity!... Though there's an hint of accusation in your eyes... what have we done? Dear, what have we done, to us? Should we shout? Should we scream? What did it happen to our dreams?

Aaaaahhhh (brusco risveglio da un sogno d'oro)

- Chi è? Che c'è? Ma il mondo non è a tua disposizione! Che sono questi ricatti, è violenza anche questa!

- Alcor!

- Ah, sei tu... ciao...

- Come stai? Raccontami tutto...

- (... e te pareva...) eh... che ti devo dire?

- E che ne so io? Ti sei divertito?

- Direi che "divertito" non è il verbo più appropriato... comunque, sono stato bene, sì. E tu, come stai?

- Lavoro.

- Quasi quasi ti invidio... scusami però, adesso devo andare, mi stanno chiamando, non vedevano l'ora di tornare a importunarmi... c'est la vie, ma chère...

- C'est la ta vie, mon ami... ti chiamo stasera e mi racconti, va bene?

- Va beeeeeeene... ciao.

SQUILLO DEL TELEFONO... (ricominciamoooooo!!! Io non posso restare, seduto in disparte...)

"Pronto? Dimmi tutto, si si, si... si...si...si... grazie... massì tutto bene, un po' esacerbante ma niente di che, la prossima volta vado in aereo o al massimo a piedi. Eh, seh... seh... Cioè?... Una riunione, mi mancava guarda. Ma quando, adesso? Ma sto ancora in mutande, veramente, mi serve mezz'ora almeno e poi sto pure senza macchina. Non so se poss... No no, figurati se mi stanco a camminare... dicevo per l'orario, farei tardi e poi... Ah, mi aspettate (che cazzo!), dammi un po' più di mezz'ora e vengo. Anzi, veramente... va be', dai... voi però cominciate pure senza di me, ok? Ciao."

Penso... penso che, dovrei, starmene, un po' per fatti miei. Ore 21.30, so soltanto che la costellazione dello Scorpione la vedrei molto meglio se mi voltassi a sud e se facessi crollare queste brutte case ad un batter di ciglia. Mi attendono e passeggio piano...che bello, Alkaid è allo zenit. Saturno è ancora attaccato al guinzaglio di Regolo. Il triangolo estivo già lo si riconosce. Riconoscerei persino il fatiscente Ariete, perché è facile individuare Marte che ivi insiste.
Salgo le scale dopo che mi si apre il portone, dopo aver suonato...

- Sei arrivato! Come stai? Sei dimagrito...

- Devo andare un minuto a lavarmi le mani, me le sento appiccicaticcie, c'è una toilette qui?

- In fondo al corridoio.

- La porta si chiude?

- Certo che si chiude, perché non dovrebbe chiudersi...

- Ah no, dicevo così, flashback.

Io ed il collega filantropo usciamo dal suo studio dopo un po'  e ci avviamo verso la piazza attraverso le strade ombrose che implorano i fari delle auto per illuminarsi. Sono le 22.30 e ci sono tutti, ho salutato tutti. Ciascuno mi vede più dimagrito e capisco che una cosa buona almeno l'ho combinata nell'ultima settimana. Ma tu guarda chi incontro... è indubbiamente carina, sì decisamente, ma niente a che vedere... la strada è molto lunga. Alza il dito medio per degnare di un cenno una nostra amica che la sta sfottendo mentre parla con me. Non c'è che dire, la fauna è ben assortita qui in giro. Ma io preferisco la flora, sempre e comunque. Le petunie ed i gigli, in particolare. Intanto Scorpio è più alto, ed io mi glorifico di questo, che almeno so che è la più bella costellazione in assoluto, almeno dopo Orione. Tramonta l'Auriga, il cielo è sempre più estivo... Eccone un altro.

- Come è andata?

- Bene.

- Che mi racconti?

- Niente.

- Ciao.

- Ciao.

Sono un bastardo che demolisce le persone. Che oblitera con lo "stucco" il cuore orgoglioso di mammà... Che non sai se mentre parla ti sta a prendere per il culo o meno, che ti risponde in maniera assurda e che si diverte a vederti bacato dalla perplessità e nella difficoltà di non capire una mazza di quello che dico. Profondendo comunque un qualche variopinto senso, una quasi-logica che è ancor più disarmante perché insinua il dubbio che possa esserci un risvolto razionale che ti dimostra, infine, come tu in fondo non ci sai arrivare. Amleto, è follia se pure c'è del nesso. Kierkegaard è il mio filosofo preferito. Søren Kierkegaard. E barcollo come un avaro mendicante di comprensione profonda e pura, al di là delle futili astrazioni semplicistiche che appendono un nome turpe ad ogni segmento di pensiero snocciolato tra il detto ed il non detto; mi dimeno e barcollo quieto, ancora indeciso tra lo stato estetico e lo stato etico. Perché ancora non so capire quale tra i due mi fa godere di più. Ancora questa parola. Ciò di cui ho veramente bisogno è di chiarire nella mia mente ciò che devo fare, non ciò che devo conoscere, pur considerando che il conoscere deve precedere ogni azione. Il punto è trovare la verità che è vera per me, trovare l'idea per la quale sono pronto a vivere e a morire. E questa mia ironia sostanziale e definitiva è l'occhio che sa cogliere lo storto, l'assurdo, il vano d'ogni cosa. Mi piace sentir parlare bene di me... mi piace che lo si faccia lontano dalle mie orecchie... ma si provi solamente a pensarlo reale questo mio presunto "bene", provatelo a tenerlo stretto e convinto nelle vostre mani ferme e determinate, toccatelo, mordetelo. Io lo so, non ci riuscirei neppure a guardarlo senza farmi venire il mal di testa. Se ne facessi oggetto della mia attenzione, se lo contemplassi un istante e lo giustificassi, se lo ponderassi... ecco, lo distruggerei nell'attimo esatto in cui ne accettassi la esistenza. Non mi rinnego ma devo minimizzarlo, tenermelo nascosto. Perché così mi rende forte. Come fosse l'unica menzogna che mi concedo. Ignorare, pur immaginandolo. Cambierei, non ci sarei più. Non mi riconosceresti veramente, neanche con i grandi occhiali scuri. E la vita dell'uomo è fondata sulla scelta, sulla decisione tra possibilità diverse. A proposito, tu che stai lì...

- ...tu che scegli di fare, noi andiamo a mangiare, vieni con noi? Stasera ti faccio compagnia io...

- Perché non vieni tu a prendere un gelato, Alcor?

- Dopo il gelato... a stomaco vuoto non me lo gusto, vieni tu con noi.

- No dai, vieni tu.

- Ok, ho capito, ci vediamo domani.

SMS n.1: ****** ho provato a chiamarti alle ore... SMS n.2: ****** ho provato a chiamarti alle ore...

Sono quasi le 23.30. Sorge la Luna con il Sagittario, in questo anno che si concentra in una notte è davvero solleone, il cielo si illumina con l'astro bianco a oriente. Non prendeva 'sto motozappa di telefono dell'era glaciale. Mi si stava chiamando, ritentate, chissà se sarà la volta buona per entrambe. Andiamo a cena, intanto. Che pizza prendo... vediamo un po', la solita ma con più abbondante tonno.
E qualcuna ci riprova e per lei è stata la volta buona.

SQUILLO DEL TELEFONO... stavolta mi fa piacere rispondere, son capace di nostalgia anche io.

"Come stai? Mi fa enormemente piacere sentirti... bene, bene è andato bene, son tornato oggi... un pochino meglio ma insomma, per noi insaziabili non c'è mai pace... ah... capisco... ma come conflitto di interesse? Proprio tu mi parli così? Ma dai... necessiti di un provvedimento ad personam per non finire sul satellite anche tu come rete 4... (maledetta tecnologia, cogito, nel frattempo)... mi senti allegro? Ma io sono sempre allegro! Senti, prima o poi ti dovrebbe arrivare una cartolina...".

Per la prima volta nella mia vita faccio fatica a mangiare una pizza. Sono soddisfazioni da non sottovalutare quando l'onnifagia si rivela essere solamente un drammatico palliativo all'atroce quesito di alcuni puntuali momenti: "E mò, che faccio? Mangio". Tornano le disertrici ed il loro custode accompagnatore che mi sta simpatico voi non potete capire quanto. Non si può non volergli un patetico, commiserevole e compassionevole, bene.
Finiamo la cena alle 0.30, e la data cambia. Siamo con un passo nel domani, vivendo ancora all'appendice di ieri. L' "oggi" è quello ad essere svanito per sempre. Il presente è un'illusione. Me lo immagino come una zip dei pantaloni. Mentre mi accorgo tra i lampioni anti-nebbia novembrina che lo zenit si colloca tra Dragone ed Hercules, lo Scorpione è alla massima altezza, come fossimo in una sera di metà luglio, e penso, penso, penso, penso... dove vai quando poi resti sola? Il ricordo, come sai, non consola... quando lei se ne andò, per esempio...trasformai la mia casa in un tempio... Ma il guaio è che sto farneticando di brutto, questa cosa non guarisce invece. Che sensazione strana vivere sempre col mal di mare... decido assolutamente di dovermi munire al più presto di un cd del Don Giovanni di Mozart. L'Anello del Nibelungo di Wagner lo posseggo già.

- Il gelato non mi va più, sembra assurdo lo so. Ma non mi va... ed ora? Andiamo a casa? Non dormo da due giorni...

- Eh no! Perchè?

- Sorry... alla prossima.

Ma l'autista dell'auto nella quale capito decide che è più opportuno andare in un locale di pessima reputazione, almeno nella mia personale  tipica assegnazione delle reputazioni.
Il solito puttanaio, e per fortuna si decide che 40 secondi persi là dentro sono anche troppi. Va bene così, ne ho abbastanza. Soffiato nella brezza metallica, sei stato preso nel fuoco incrociato di infanzia e vertigini, vieni, bersaglio di una lontana risata... Vieni!... Come on you stranger, you legend, you martyr, and shine!

Mi lasciano sotto casa, mentre la radio del mio amico passava Carmen Consoli e quella sua voce particolare. Scendo dall'auto che sono circa l'1.30, e al connubbio celeste si è unito anche Giove che mi ricorda i muretti freddi delle sere di fine agosto da piccolo, quando l'estate volgeva al termine e sentivo nelle narici l'odore dei libri di scuola che si infilava brutale a graffiare la limpidezza di quella giocosa sequenza di giorni lieti. Ed è buffo vedere già lo Scorpione inseguire la Vergine lungo il sentiero del tramonto  sud-occidentale.
Prima portavo dritta la barra, una specie di timone, di manubrio, una banderuola che riusciva, anche nei periodi più foschi, ad indicare almeno donde spirasse il vento e donde mi conducesse all'apparenza, a poppa, a prua, dove cazzo gli pareva, ma almeno ci capivo qualcosa. Pare che si sia arrovellato su se stesso l'asse magnetico terrestre, non guido più nulla, non reggo saldo il controllo. La rosa dei venti assomiglia ad un orologio scordato con una sveglia sorda impostata ad ogni minuto, con un cucù che picchia forte in testa. Tante ore di luce, tante ore di buio, poche aurore polari, un'upupa appesa ad un rametto di platano con le radici emerse dal suolo, in un'Arcadia mai neppure immaginata. 

Come una cometa che ha orbita iperbolica, che passa una sola volta a salutare l'eternità.

Nulla di finito, nemmeno l'intero mondo, può soddisfare l'animo umano che sente il bisogno dell'eterno.


(S. Kierkegaard, Aut aut)





venerdì 23 maggio 2008

La Valse d'Alcor

R. passeggiava con aria spaesata lungo via Paolo Sacchi alla ricerca di una eventuale fermata degli autobus. Portava la sua borsa gialla stando attento a non farle toccare il suolo sporco di fanghiglia per il temporale da poco interrotto.

Era rimasta intatta quella presunta sensazione di pioggia. Aveva il telefono scarico, non avrebbe potuto avvisare nessuno né del suo arrivo, né della sua prossima ripartenza. Aveva un biglietto con un indirizzo che sbucava fuori dal suo taccuino  sul quale aveva appuntate varie cose. Qualche vago promemoria che servisse a bloccare un pensiero scalpitante di farsi dimenticare, qualche severo ricordo, e la necessità di dover comprare qualcosa per il compleanno di sua madre. Aveva un paio d'ore per cavarsela. Mentre riponeva i suoi occhiali scuri nella custodia per indossare quelli semplici da miope - "reggi", pensò a se stesso -  si accorse di non aver spedito quelle cartoline che giacevano in preda alla sua negletta sbadataggine. Rimediò, cucendo la classica toppa al minore dei casini. Doveva chiamare una persona che lo stava aspettando ma il suo telefono non reagiva. Un esempio di una normale e mancata efficienza di cui quel breve periodo era intriso, nulla più. Entrò in un bar. Si rivolse così alla ragazza che serviva caffè con timide movenze e attenta a non deludere.

- Ho bisogno di una cortesia, signorina.

- Prego?

- Potrei usufruire di una presa elettrica per attaccare il cellulare scarico? Ho urgenza di fare una chiamata importate, per favore.

- Deve chiedere alla signora. - disse lei indicando una donnina sui quaranta anni portati pessimamente nella loro indisponente conformazione in colei che sedeva dietro la cassa, i tabacchi ed i valori bollati. R. ripeté con garbo la preghiera anche a costei. Quella ci pensò su per qualche minuto.

- No, oggi è saltata già la corrente due volte, niente da fare, non concedo la presa elettrica a nessuno.

- Lei è molto gentile. - Le ribattè più signorilmente R., anch'egli inizialmente intento a rispondere con maggiore sarcasmo a quella sottospecie di scopaccia vecchia con le setole nere e indurite da chissà che cattiveria repressa. Ma a che cosa sarebbe servito? Proprio in questi giorni R. stava imparando a sue spese che recitare per forza un ruolo da protagonista in gabbia non ha molto senso. E che far da comparsa nella guerra è più silenzioso, ma vero, sincero, e almeno non fa scappare via le persone importanti.

Si sedette allo sgabello ed ordinò un bicchierino d'amaro. Sedeva al tavolo di un bar da solo per la prima volta in vita sua, come un avventore solingo pronto a saltellare ramingo da una tappa all'altra della propria sorte. Lui, invece, doveva solo riempire delle ore, prima di tornare a casa.

La ragazza che serviva il caffè gli stava servendo l'amaro, gli sorrideva sotto i capelli biondi legati nella coda lenta da cui pendevano due ciocche ai lati del viso stanco, e gli occhi posati a fare ombra sulla sua camicia bianca. R. si allentava un po' il ciondolo di ferro che portava appeso al collo, e sorseggiava il suo amaro, mantenendo le borse e la valigia sentendone il tatto, accendendo l'interruttore della sensibilità al contatto; evitando di guardare negli occhi la ragazza che ubbidiva agli ordini abbaiati da quell'essere a cui R. si preparava a consegnare un biglietto da 5 euro, ed un vaffanculo sotteso al sorriso di ringraziamento che egli non negava comunque a nessuno.

Mentre usciva da quel locale, facendo roteare la sua valigia azzurra, si sentì chiamare alle spalle.

- Ah! Stai qua! Aspettavo la tua chiamata!

- Ehi D.! Che culo che ti ho trovato... avrei dovuto chiamarti, ma ho il cellulare scarico, ed è 'na tragedia ogni volta... cazzo che culo, non avrei saputo come trovarti in questa città col clima di merda.

- L'hai preso il caffè?

- Ho già preso, grazie, ma te lo offro volentieri lo stesso.

- Ero sceso da casa per comprare le sigarette, che combinazione... io abito proprio lì dietro.

- Già... Ehm... D. muoviti però, che devo usufruire del tuo cesso urgentemente. - I due escono dal bar.

- Be'? Te la stai a spassare, R.?

- Come no...

- Quando sei arrivato da Parigi?

- Poco fa, quando ti ho chiamato e la telefonata si è interrotta ero nel sottopassaggio della stazione... Ma che giornale stai leggendo? Liberazione?

- No, è il Manifesto.

- Bene.

- Tu che leggi, R., La Repubblica?

- Leggo Il Sole 24 Ore.

- Sei un capitalista di merda...

- E tu sei uno pseudo-rivoluzionario paraculo, pieno di soldi, che a poco più di vent'anni hai già la casa di proprietà. Ipocrita. Dov'è il bagno?

- Là in fondo al corridoio, fai con comodo... vedi che la serratura è rotta, la porta non si chiude...

- Tanto non credo che sei diventato un frociazzo a star qui da solo...

- Il tuo Veltroni mi ha rotto le palle.

- Non è "mio". E poi, forse non proprio rotte, ma un pochino erose dall'interno le ho pure io.

- Com'è Parigi?

- Stupenda.

- Ma ci sei stato solo?

- Alquanto.

- Ma è un po' una cazzata andare a Parigi da solo, o no?

- È una cazzata viaggiare da solo quando non hai voglia, o sei stufo, di star da solo. A prescindere da dove vai.

- E tu volevi starci solo?

- Alquanto.

- Sai che ieri un cane si è suicidato lanciandosi dal quarto piano, si era spaventato al temporale...

- Cavolo... anche i cani soffrono di nevrosi, mi sento molto sollevato...

Dopo aver discusso della top five delle facoltà di economia in Italia, del diverso approccio di destra e sinistra di fronte al main topic del rapporto deficit/Pil, del protezionismo e dell'intervento dello stato nel regolare i mercati, R. lasciò la casa di D. e si avviò, dopo averlo salutato e ringraziato.

Si guardò le dita, devastate. Nonostante non le stesse toccando da giorni e la cosa gli provocasse uno scorrere di onde elettrostatiche per tutto il corpo, le quali solitamente trovavano appagamento nei graffi che si infliggeva con le unghie lunghe utili all'arpeggio.

Entrò così in una pasticceria. Un bellissimo posto. C'erano biscotti alla panna e al burro, cioccolato di ogni tipo, crostate ai mirtilli e al lampone, anche un angolo con degli enormi cannoli siciliani come quelli usati nel Padrino III per avvelenare un boss nella tipica scena finale dove il Corleone di turno si rompeva le palle di prenderla sempre a quel posto, e faceva piazza pulita di tutti i rompicoglioni, familiari compresi.

- Buona sera signora.

- Buona sera bel giovanotto, dica pure...

- Dovrei fare un regalino ad una donna golosa di dolci, ma qualcosa che possa resistere a...

- ...a cosa? Al caldo della Puglia?

- Non solo a quello - "ma come cazzo fanno a sgamarmi sempre", pensò - più che altro resistere ad 11 ore di viaggio...

- Può prendere questi cioccolatini qua, nella confezione a barattolo. Resistono, la confezione è carina, e sono pure in offerta.

- La prendo, a prescindere dall'offerta. - Quando si vuole fare un pensiero carino, una volta tanto, i soldi contan poco, pensò.

- Lei di dov'è, ragazzo? - Chiese la signora sorridente che trotterellava come una gallina nell'ovile in quel bellissimo luogo zeppo di leccornie sweet, very sweet... Ed allora R. rivelò la sua provenienza.
- Ho una nipote da quelle parti. Mi chiede sempre di andarla a trovare, ma come si fa? - Venga, signora, le assicuro che ne vale la pena. Io parto tra meno di un'ora, e arrivo domattina. Lei è molto gentile.

- Ecco a te, prendi, per il viaggio. - E la signora gli regalò una bustina con un pugnetto di cioccolatini fatti a mano. R. quasi si commosse, per quanto fosse così apparentemente freddo e reticente, quel gesto così spontaneo e generoso gli ammorbidiva la maschera di cera scura, e stanca.

Erano cinque i cioccolatini. Ne mangiò quattro lungo la strada, mentre si fermava a guardare ogni tanto qualcosa a caso, bloccandosi con tutti i bagagli che portava con sé. Ad un certo punto un tizio gli si fece incontro e cominciò a parlargli con un settentrionico accento incomprensibile per via della bocca sdentata, quantunque fosse ancora giovane e all'apparenza non sembrasse neanche un disgraziato. Insomma, cercava soldi. Gli mancavano 4 euro per comprare un biglietto per andare a Milano.

- Sono un ragazzo come te, aiutami, ti prego...

- Tu sei come me... ma stai scherzando? - R. si guardò intorno e mentre passava da un lato all'altro del corso con lo sguardo, metteva le mani in tasca, e tirò fuori una moneta da 2 euro.

- Ho solo questi - disse, dandoglieli - ma qua nessuno è come nessun altro, ficcatelo in testa.

- Grazie - rispose quello.

R. fece un cenno, oltrepassò, e giunse al punto in cui avrebbe atteso il mezzo che lo avrebbe ricondotto verso casa. Ed il cerchio si chiudeva.

Tirò fuori l'ultimo cioccolatino, pensò che avrebbe voluto condividerlo. Prese il telefono, una smanettata rapida per scrivere e lo richiuse, e mangiò il cioccolatino che a suo modo aveva condiviso.

No, non enfatizzava troppo i momenti, non li caricava di alcuna ansiogena tensione emotiva, li viveva per quel che erano e significavano, perché ciascuno ha un suo modo ed un proprio percorso per giungere a vivere delle esperienze, anche se apparentemente banali. E per un ex nano da giardino, ogni passo aveva la sua importanza che andava giustamente assaporata. Perché nulla è poi così scontato.

Assolte queste introverse perplessità trovò, in quella stessa tasca dalla quale aveva estratto la moneta, un biglietto scritto la sera precedente davanti alla chiesa di Saint-Germain-des-Prés, mentre sorseggiava un Johnnie Walker red in un posto frequentato da Jean-Paul Sartre. Aveva scritto una cosa che aveva pensato però la sera ancora prima di quella, mentre camminava lentamente, ed un po' sonnecchiando, attraverso Place Vendôme. Lì, anziché badare a tutto ciò che quella piazza offriva a chi la incontrava per la prima volta, posò la sua attenzione verso chi, solitario come lui, sedeva ad uno di quei tanti tavolini rotondi che cingono il fianco pressoché di ogni bar di Parigi. C'era chi in solitaria assise fumava e guardava. Niente di che, ma quel piccolo oggettino tra le dita che ogni tanto si infilava in bocca accendendosi alla sommità pareva racchiudere e giustificare quell'immagine, la realizzava, la completava. Ne dava un senso, pareva l'esatta manifestazione figurativa di un individuo che stesse pensando, a chissà quali stronzate, ma non aveva importanza. Quello stesso individuo senza sigaretta sarebbe parso un idiota, imbambolato, incapace di vivere l'inazione e lo star fermo. Sarebbe parso un burattino inutilizzato ed auto-selezionatosi all'esilio durante un pomeriggio qualunque.

E l'essere incapace di vivere il silenzio davanti alla chiesa di Saint Germain, gli aveva ricordato quel pensiero che andava trascritto e poi ridipinto, elaborato, concettualizzato, teorizzato. Cosicché l'idea della sua follia sarebbe emersa ancor più nitida. Perché amare il mondo è anche essere folli, non volerselo fare scappare in nessun istante, e voler portare tutto via con sé. Trascinandoselo dietro nei suoi piccoli particolari che nessuno nota, nelle parole carpite per caso nell'aria, negli incontri fortuiti, nei sorrisi immotivati, nelle minchiate sparate a raffica per la congenita incapacità di star zitto per ritappezzare di caricatura un imprevisto disagio.

Portarsi via con sé tutto il mondo ad ogni fiero passo, raccogliendolo e seminandolo allo stesso tempo.

Uno spettacolo di pupi. Un altro ancora, ma un pochino diverso. Perché di ciò di cui si nutriva il pensiero e la penna, R. nutriva anche l'anima, e la forma a questa sovresposta. E a questo pensava mentre appuntava ancora qualcosa nella notte che calava su quelle interminabili ore che lo separavano dal completo ritorno. Guardava sovente il telefono muto che aveva rinfrancato durante le chiacchiere sociali a casa del suo amico. Lo spense. Ed era meglio così. Negli attimi sottratti alla vita il tempo non dovrebbe mai trascorrere realmente, pensava. Le lancette si sarebbero dovute muovere per sancire, far evolvere, e poi portare a compimento i soli momenti in cui si assapora qualcosa che possa contare davvero.

Avrebbe così provato a dormire per accorciare il tempo dell'attesa. Attesa di niente, ma pur sempre un'attesa.

Di tutto quello che aveva vissuto avrebbe potuto scrivere un diario infinito, un'agenda di quanto aveva toccato e garantito con i suoi passi ed un'altra circa quello che aveva avvertito e sfiorato soltanto come una spolverata di zucchero a velo su una ciambella allo yogurt, un po' secca ma buona. Come due riversi lati della stessa luna, abbracciati ed intrecciati nei loro differenti punti di vista, come Amore e Psiche, vittime e sorgenti delle rispettive vite e speranze.
Avrebbe raccolto di nuovo tutto, emozioni ed impressioni, passi, attese... les croques monsieur e les baguettes ripiene di basilico... le bottigliette d'acqua quotate sui mercati finanziari... Saint Sulpice che è meglio di Notre Dame... i Pastori d'Arcadia di Nicolas Poussin... le cupole del Sacro Coeur che spiccavano alla vista dalla stazione di Stalingrad, come il Canal Saint-Martin che spiccava ai piedi di Jaurès... la pace nei Jardin du Luxenbourg dove gli venne da piangere mentre scriveva le cartoline ai suoi amici... una corsa improvvisa in un'inattesa e tarda serata per raggiungere il luogo previsto sotto le note di una canzone di Elisa che puntualmente quasi didascalizzavano i suoi pensieri impressi in quella scena, e quel suo cercare intorno... i saluti virtuali che giungevano da chi normalmente lo avrebbe ignorato, ed i saluti reali picconati dalla fretta dell'ultima chiamata della mètro... quella sua inutile, controproducente, ma indispensabile dolcezza... le notti perennemente insonni violentate dall'altrettanta insonne Gare de l'Est in una massima gara di resistenza fra i turbinii notturni, an interesting contest tra quello esteriore delle rotaie iperattive e quello interiore dei neuroni 24h non stop.. Les Halles pronunciato in inglese... l'odore opaco di polvere stagionata nell'ènglise de la Madeleine... rue de la Fayette imboccata sempre e rigorosamente nel verso sbagliato... La Chapelle da cui si partiva e si tornava... e Gare de Lyon maledetta da cui si è partiti e basta... la ragazza accanto a lui nel treno del ritorno che litigava coi finanzieri cinofili per lo schiavismo dei pastori tedeschi... sarebbe stato riportato tutto a casa.

Alla fine di questa storia, forse qualcuno avrebbe trovato finalmente il coraggio per affrontare i sensi di colpa e cancellarli da questo viaggio... no, questa era un'altra storia, soltanto simile a quella di  R. che ritenne in ogni caso di aver scelto la vita, ed era felice. Anche se si sentiva un tantino straniero, per non esserci stato in maniera pura, un po' come il formaggio sugli spaghetti soffritti coi funghi... a qualcuno potrebbero anche piacere siffatti, ma a lui piacevano senza. Li preferiva sempre abbondantemente piccanti nonostante nocivi al suo cuore debole, però fattivi, concreti ed essenziali, focosi ma senza fumo... e mentre si spegnevano davvero le luci e calava il sipario, R. si sforzava di chiudere gli occhi, cercando in sé una risposta ad una domanda, di provare ad individuare un desiderio in cima alle sue attese e provando a sperare che nulla fosse ancora perduto, conoscendo se stesso e quel momento lì, quella perla vera nella sua vita. E consonando occasioni perdute ed altre ancora da esplorare nei meandri del suo egoistico presenzialismo risibile, lasciò partire quella canzone... il giorno dopo è sempre la malinconia che spezza la magia di un'altra vita... fai mille cose, ma sono sempre i tuoi pensieri che scelgono per te diversamente... Son stanco d'aver detto le cose che dirò, di aver già fatto le cose che farò, ma è tardi, troppo tardi... rimangono le cose senza falso o vero, e la rinuncia triste a quello che io ero...