sabato 26 aprile 2008

Giovedì






Ad aprile l’arenile disabitato è molle, la marea ad ogni morso sulla terra mastica le stesse leccornie di ciarpami di alghe e conchiglie svuotate che aveva già ivi irrorato durante i rigurgiti lenti specchianti le sonnacchiose occhiate di luna.


L’odore dell’acqua ha uno spessore più legnoso e sinceramente più denso se sniffato in un giorno lontano dalla calda indifferenza di luglio, ed è combinato ad un tanfo di gomma bruciata; si persuade e si concilia in quell'irreale storno dalla scena, ogni singolo guizzo di mondo, avulso in quella minuziosa decomposizione dell'ordine; come quel puntuale amorfo ticchettìo che cercavo in qualche vago rintocco metallico che fosse prossimo o discosto, per ritrovarlo poi negli alberi di due imbarcazioni che si toccavano nel vento fendente la bonaccia che li premeva entrambi, l’uno contro l’altro.



La pensilina sul mio capo è troppo corta per riparami dai raggi che picchiano e gonfiano le odorose esalazioni marine ed industriali colluse a pochi sguardi da me. Nel lacrimoso sebo lubrificante lo sguardo, tacitamente cigolante tra le palpebre arricciate, e mendicante un debito di sonnolenza da imminente bancarotta dell'equilibrio-salute, si ovattano le esclamazioni screanzate dei conducenti frustrati dei tram al metano, all’indirizzo delle prostitute nigeriane imbellettate che transitano a zonzo qua e là indossando delle calzature ridicole che non arrivano a riempire completamente il piede e lasciano metà pianta strisciare oppure appesa. Urlano sempre. Le potrei ancora raccontare, nella mia pendolare memoria di studente viandante, come un antidoto alla tranquillità; soprattutto durante le tratte più lunghe, quelle tese a combattere tra il mal di stomaco e l'aria gravida dello squamoso velluto rosicchiato dei sedili, che aveva come naturale epilogo la quotidiana emicrania, cui seguitava l'assunzione della quotidiana dose di nimesulide. Unica sostanza chimica che può vantare di aver turbato la mia vita, a dispetto di qualsivoglia lisergica aspirazione.



Mi piacerebbe correre tra questi piloni del ponte e del raccordo, sull'imbarcadero più sporco d'Italia, ma che trasuda di una mesta speranza, che è speranza solo per l'inerte e opaca abitudine a rincorrere, che fa tuttavia dimenticare cos'è che poi si anela, in fondo al percorso.


Biancheggiano giorni strani in cui potrei paventare l'esistenza di qualcosa indistinta nel diluirsi del tempo che stia tenendo in serbo per me una qualche forma di felicità. Ha il profilo di una parola inerte scivolata via con più miti intenti di quelli che potrebbe attingere abbracciando i reconditi assunti che cavalcano la notte al calar delle mie impudiche resistenze di circostanza. Parole che senza caricarsi di alcun futuro mi chiedono di non andar via quando sono già voltato di spalle, con il passo della ritirata che è già concepito nel flusso che scorre dal pensiero all’azione.



Non urge affatto considerare e scavare quale sia la natura e l'aspetto di quel volermi agganciare ad un qualunque destino, oppure se dovesse rivelarsi solo l'ennesima funambolica ombra di un'illusione.
C'è una malinconia latente che  assurge ad alcova alle più mordide ed imprevedibili mattine in cui pare perfino di essere assuefatti ad un'incomprensibile forma di pace. Non è nel compimento di un bisogno che pur cresce dentro e che alimenta questa luce, l'appagarsi. Ma nella sensazione, consciamente falsa, che questo possa non finire mai.


Lento scivolare di momenti in cui i piedi si posano senza pretendere alcuna rivincita al suolo, una tensione senza promesse che si riempie di un’onda che non affoga. Non è un fruscio della vita che annuncia doni e cornucopie di messi abbondanti, ma una carezza che cade senza relegare al nudo tatto lo sconforto di una solitudine colma di un'immensa attesa.


Ed una malinconia che mi è cara nella misura in cui non spetterebbe a nessuno l'ardire di voler portarmela via, è così...





2 commenti:

  1. Credo che sia una necessità umana il pensare che c'è in serbo per noi, in un futuro non meglio definito, una qualche felicità. Non è speranza, è spirito di sopravvivenza. Cito il grande Kundera:

    La gente di solito si rifugia nel futuro per sfuggire alle proprie sofferenze. Traccia una linea immaginaria sulla traiettoria del tempo, al di là della quale le sue sofferenze di oggi cesseranno di esistere.

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  2. Sarà... Secondo me, chi vede il futuro come qualcosa di non poi tanto lontano è,alla fine, colui che del proprio destino è artefice. In fondo, quanto piú è vaga la speranza tanto meno è potente la Forza.

    Sempre che si voglia vedere un post come didascalia....

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