sabato 15 marzo 2008

The ultimate regret



L’altra sera ti ho rivista, e avrei preferito che mi si infilasse inside un asteroide della nube di Oort ad uso di supposta antipiretica. Perché di tutto mi si può saccheggiare il cuore, tranne che della lenta nenia di un rimpianto d’annata. Quello che mi fa compagnia durante le brulle serate, quando mi infilzo l’anima segregato nelle polverose riunioni con canuti soggetti dall’intelletto scarno e genuflesso alla mercé del rincoglionimento galoppante.




Nelle surreali miscele di fumi passivi, e di lagne latrate da bocche indegne di spalancarsi all’aere in un mondo che fosse davvero decente, mi ripristinava all’oblunga quiete dell’esistere il ricordare ancora la presa della tua mano, che, con indifferente vergogna, faceva finta di fingere di non volermi tastare laggiù, eppure esplorava con somma maestria zone proibite della mia dotazione infrastrutturale, ed io, consentendoti libero accesso, mi concentravo sul malizioso sorrisetto che si inarcava soffice sul tuo viso astuto. Mi stavi seduta sulle gambe, ed io, all’epoca novizio, sottomesso al fato, non opposi alcuna puerile resistenza.
Diciotto anni compiuti da un mese appena avevo, tu di inverni come quello ne avevi goduti diversi in più.



Una prosperosa amazzone di tal sorta, che mi guardava dall’alto dei suoi 1,90 facendomi sentire un minuscolo borlotto al suo cospetto, coi capelli lisci di un falso nero, ricoperti dal velo matronale che quella sera ammantava i volti delle dame, all’insegna del medioevaleggiante rievocar di leggende e sacrali storie di martiri venerabili. E rimestando tra quelle reminiscenze empiree, riassaporavo ogni volta il retrogusto di naftalina di quel tuo corpetto lanoso turchese esaltante oltremodo le tue già rigogliose fattezze che stimolavano smisuratamente l’atavico istinto riproduttivo che è il solo fine ultimo di questa cagata di vita.



Non c’era posto per te nell’allegorico e carnevalesco banchetto in costume, e affabilmente tu mi adoperasti a guisa di poltroncina; con mia somma soddisfazione, poggiasti su di me le tue natiche perfette il cui tocco ancora esita nella rimembranza mielata di quella soave adiacenza. Ancor oggi vorrei punire le mie infantili inermi mani, che hanno molto peccato in omissione, nonostante la mia mente peccasse già in pensieri e parole tacitamente profuse, ed un altro organo ingovernabilmente peccasse già opportunamente in opere…



La vita strofinava quei minuti che trattenevo nei miei respiri con l’apnea che apponeva zavorre al piacente appagamento che ti sconvolge e ti rende prono a sacrificar tutto l’esistibile e l’esistente per non troncare mai quel godimento serafico. Non oso immaginare se tu me l’avessi data che diavolo mi verrebbe da scrivere adesso, dopo tutti questi anni foschi.



Perché quella sera, dopo la farsa buffonesca per le vie del borgo antico, dovetti entrare in scena, con la stola e la tunica vescovile di un santo martire innocente. Disperante e dolente nella finzione di un precoce incontro con la morte, la mia mente e qualcos’altro erano ancora lì, accanto e sotto le tue grazie indimenticabili, e la mia carne lesa dal supplizio di non averti meco in singolar tenzone. T’avrei distrutta.



T’ho cercato, in seguito quella sera. Ributtando complimenti inutili e tediosi, nella moltitudine circondante scrutai lesto per vederti spiccare con la tua chioma nera e gracile come una notte di marzo. Raggiungendoti ti presi la mano, e ti mormorai romanticamente: “tu stasera non ti ritiri incolume”; ti chiesi di aspettarmi mentre recuperavo le mie vesti borghesi, e per liberarmi dai sacrileghi costumi ecclesiali. E tu sorridesti affabilmente vogliosa di iniziarmi a quell’unica opera per cui il mio involontario soggiorno si compiace e si trastulla.



Ma, ahimè, mi sorprese quel giornalista infame a cui successivamente ho rivolto le mie più acrimoniose maledizioni, estese poi a tutta la sua malsana generazione di rompicoglioni. Perché bastarono alcune indicibili e scontate domande ad accelerare il  tempo e dilatare l’attesa di colei che non c’era già più, mandando a farsi fottere la libidine accumulata che mi stava trapanando il cervello, e lasciandomi solo a dover gestire un’incazzatura mista alla famelica eccitazione.



Quattro fidati amici scorsero la costernazione omicida che pulsava nei miei occhi arrossati dai fotoni infetti degli occhi di bue puntati addosso a me per tutta la sera.



La mia libertà di intendere e di volere era stata strangolata dal mio post-adolescenziale testosterone, tradito dalla mancata iniziazione con una giumenta di quel calibro…



Raccolsero i miei abiti civili in un sacco, e ancor travestito da vescovo trafitto, mi condussero in una cantina laddove su un soppalco giaceva un vecchio materasso insudiciato dalle inique pratiche che lassù vi erano state agite. Mi distesi distrutto.



Scomparisti lasciandomi un mal di testa che manco Polifemo con la trave acuminata nel suo unico occhio. Non bastarono le passive inalazioni della marijuana dei miei amici, né i litri di non so che cazzo mi fecero bere… per non pensarti avrebbero dovuto prosciugarmi letteralmente i capillari di tutto il sangue e farvi scorrere dentro il mosto puro del peggior tokaij sintetico che servono a Budapest e che avvelena pure i marziani.



Non bastarono gli strilli di Ian Gillan e gli assoli di Ritchie Blackmore, no, urlavo solo il tuo nome e la mia dannazione.



Guarito dalla turba dopo pochi giorni, t’ho vista spesso, ma non sarebbe stato lo stesso folle gesto di quella sera. Ti ho ricacciato nella quasi indifferenza, come facesti tu del resto. Sei rimasta lì dov’eri, nel rimpianto nobile che mi ha insegnato molte più cose che non le splendide erudite nozioni che un giorno saranno mangiate dai vermi insieme al mio epidermide inutile.



Sei rimasta lì, nel mio lieto pensiero di solitudine, almeno fino all’altra sera.



Quando t’ho rivista al tavolino di una pasticceria, ad ingurgitare una torta ipercalorica con una tua amica, e avrei voluto morire oppure massacrarti di botte. Perché al tuo posto vedevo la sorella minore di Moby Dick, e percepivo sottile il lamento della sedia di plastica bianca su cui premevano immonde le chiappe da pachiderma che ti sei fatta crescere.



M’è venuto istantaneo dirottare la mia sensibilità percettiva sul mio basso ventre che tu rendesti felice posandole su di me, quando esse meritavano inchini e lodi, in quella sera di sublimi presagi andati poi al becero macero… e vedendoti ora goffa e lardosa, il mio dolce rimembrar s’è irreparabilmente riempito di schifo. Neanche se io fossi un napoletano nostalgico dinanzi a Maradona ridotto ad ippopotamo.



Ecco, quella sera lontana sei sparita portando via con te un’occasione dignitosa per sancire il senso della mia presenza, lasciandomi un rimpianto sguazzante beato nella innata orda nichilista dei miei pensieri.



L’altra sera ti sei portata via anche questo, alienandomi a considerare ancora una volta che diamine sia, in fondo, la quadruplice radice del principio della ragion sufficiente. Cioè nulla.

5 commenti:

  1. si tratta semplicemente dell'esemplificazione della dicotomia ideale-reale tanto cara a molti, da Hegel in poi. l'ideale è il tuo ricordo, le tue sensazioni sublimate (per quanto materiali)...il reale la straziasedieinpuraplastica. però la torta ipercalorica l'ingurgiterei pure io, ora come ora, quindi ha tutta la mia invidia.

    :-)

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  2. "quadruplice radice del principio della ragion sufficiente"...what's it? (roba che se c'entra kant neanche ne voglio sentir parlare)

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  3. é il titolo della tesi di laurea di Schopenhauer, sì c'entra anche Kant...;-)

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